Ha minacciato Assad. Minaccia evaporata. John Kerry, si diceva teso a trovare un accordo tra israeliani e palestinesi, ma il risultato è stato un fallimento. Obama si è opposto all’annessione della Crimea alla Russia, ma non è riuscito a fermarla. Nel suo primo giuramento da presidente, ha promesso la chiusura di Guantanamo. È ancora lì». Non sono gli americani che hanno fornito un verdetto su Obama, conclude Freedland: «È il resto del mondo che è giunto alla conclusione che il suo potere sta ormai evaporando».
Obama è sempre stato accusato dai repubblicani di avere una politica estera debole. Questo atteggiamento potrebbe coincidere con l’emergere – ormai – di un mondo multipolare, in cui potenze regionali minano la supremazia americana, realizzatasi dalla fine della guerra fredda in poi. E sono in molti ormai — per quanto il nazionalismo repubblicano spinga per tornare al periodo imperiale — a vedere gli Usa in lenta decadenza. Obama, per i suoi sostenitori, avrebbe capito il mondo contemporaneo, scegliendo di tenere un atteggiamento moderato, scovando — quando possibile — alleanze allargate (e un po’ con chiunque, bisogna aggiungere).
A questa «prudenza» in alcune aree del mondo, ha corrisposto l’attività in Asia, per contrastare la Cina: accordi militari e un trattato commerciale che dovrebbe tagliare fuori proprio Pechino. Il «pivot to Asia» ha rischiato di creare crisi nel Pacifico, ma può essere considerato il fulcro della politica estera di Obama. O almeno, quella in cui le idee sembravano più chiare. E ora, con l’attenzione che tornerà all’Iraq, la Cina potrà preoccuparsi meno di Washington e si assisterà al progressivo riarmo dei paesi alleati degli Usa, che penseranno sempre più di dover fare da soli. C’è poi il capitolo europeo. La campagna elettorale midterm è cominciata in Ucraina. In quel caso gli Usa hanno mandato agenti Cia e funzionari neocon (celebre il caso di Nuland che manda a quel paese proprio l’Ue) per sistemare le cose: avvicinare l’Ucraina all’Europa, completamente prona ai voleri di Washington, come dimostra il Ttip, allontanando e isolando Mosca. Il risultato – di nuovo — è stato contraddittorio. Un governo filo americano (il presidente Poroshenko definito «our insider in Kiev» dai funzionari Usa) si è insediato a Kiev, ma la Crimea è diventata russa e l’Ucraina orientale è un campo di battaglia.
E Mosca e Pechino hanno siglato un contratto trentennale per il gas.
Infine le questioni più note. Si sa che i repubblicani spingono per un ritorno in Iraq, ipotesi che Obama ha sempre rifiutato. E proprio in quelle aree si giocherà la partita interna per la prossima presidenza, immaginando un riavvicinamento tra Usa e Israele. Ma la prossima probabile candidata democratica, Hillary Clinton — che già riscuote il consenso dei renziani di casa nostra e che è ben più a destra di Obama — ha recentemente aperto un vero e proprio fronte interno, criticando la reticenza del presidente. Hillary in quell’area ha un precedente niente male: l’11 settembre 2012 i jihadisti uccisero l’ambasciatore Usa in Libia, Stevens. E proprio Stevens era stato mandato da Clinton per gestire gli insorti contro Gheddafi. Libia, Siria, un disastro dietro l’altro, guerre umanitarie che allora costarono l’uscita di scena alla prossima candidata democratica.
Che per apparire più forte ha già indicato la rotta: l’Isis – ha detto – è la nuova Unione sovietica, in rappresentanza di un’America che sembra non rassegnarsi all’inesorabile scivolamento verso un mondo multipolare. Con o senza Obama.