Gli ultimi tentativi del premier E il presidente: non ce la faccio più
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L’ultimo che ha creduto di convincerlo è stato Matteo Renzi, una settimana fa. «Presidente, la prego di rivedere le sue decisioni e di restare più di quanto vorrebbe. Siamo in una fase critica per le riforme e non solo. C’è bisogno di lei, come garanzia per tutti, finché non usciremo dall’emergenza». Questa la richiesta. Ma, anche se il premier aveva vestito le proprie parole con toni insistenti e, anzi, quasi accorati, la risposta non è cambiata: un no secco. Giorgio Napolitano è rimasto irremovibile, dopo che già da qualche tempo ripeteva di voler interrompere presto il secondo mandato al Quirinale.
Si era detto e scritto (anche sul Corriere , in diverse circostanze, benché Napolitano non gradisse «lo sterile gioco» delle supposizioni) che dalla chiusura del semestre italiano di guida dell’Ue, il prossimo 31 dicembre, ogni giorno sarebbe stato plausibile, come data per un congedo anticipato del capo dello Stato. Nessun grande mistero, nessuna vera incognita. Certo, molti tendevano a far slittare nella tarda primavera — ma non oltre il suo novantesimo compleanno, il 29 giugno — l’orizzonte che il presidente era disposto a darsi. Altri, più drasticamente, stringevano i tempi a gennaio, basta pensare a Emanuele Macaluso, che già il 18 marzo scorso aveva profetizzato le dimissioni dell’«amico Giorgio» nel giro di «poco più di sei mesi». Ieri la questione è stata rilanciata per via mediatica, con una perentoria indicazione: Napolitano lascerà il Colle entro fine anno.
Per come si sono messi troppi fattori, è ormai un’ipotesi più che sensata. Infatti, per il presidente il limite di «sostenibilità» di un incarico così gravoso, sia sul piano istituzionale sia su quello personale, sembra ormai sul serio alle soglie di esaurirsi. Forse senza possibilità di ripensamenti, a costo di dover certificare un fallimento — in questo caso del Parlamento — rispetto alla speranza di potersene andare lasciando il Paese più «in ordine» di un anno fa. Sulle sue scelte incombe anzitutto un problema di «sostenibilità» fisica, perché Napolitano è da mesi perseguitato da una serie di disturbi e acciacchi che gli impongono fastidiose terapie e lo fanno dormire poco e male. Tanto da confidare di recente ad Alfredo Reichlin, coetaneo e sodale di una vita: «Non ce la faccio più».
Guai su cui potrebbe forse anche passare sopra, per un altro po’, a un paio di condizioni. Se vedesse che il percorso delle riforme costituzionali, certo non brevissimo, fosse costruttivamente imboccato. E se si riuscisse a varare rapidamente almeno un nuovo sistema elettorale (da realizzare per legge ordinaria, dunque attraverso un itinerario meno problematico), in grado di sostituire il relitto legislativo che resta in piedi dopo la sentenza della Consulta sul famigerato Porcellum. Ma su entrambi questi fronti, che erano fra le precondizioni da lui poste per accettare un reincarico comunque a termine, nonostante i suoi continui richiami la politica è impantanata.
Non solo. Con i due maggiori partiti impegnati in reciproche prove di leadership e con intermittenti fibrillazioni su alleanze fondate solo su calcoli di convenienza, tra la seconda metà di gennaio e febbraio potrebbe accadere di tutto. Anche che il governo dichiari forfait, magari sulla base di qualche nuovo sondaggio, ciò che ucciderebbe la legislatura. E Napolitano, si sa, non vuole firmare uno scioglimento delle Camere che renderebbe l’Italia ingestibile per alcuni mesi, provocando un lungo stallo proprio quando l’Europa si aspetta da noi scelte concrete e convincenti sull’economia. Andandosene prima, il presidente metterebbe quantomeno l’intero sistema dei partiti di fronte alle proprie responsabilità.
Se tale scenario è davvero fondato e se non dovessero intervenire variabili che nessuno azzarda, la procedura potrebbe essere questa. A fine dicembre, durante l’incontro con le alte cariche dello Stato o nel messaggio agli italiani di fine anno, il preannuncio delle imminenti dimissioni. Poi, nel giro di qualche settimana, le dimissioni formali. Da quel momento scatterebbero i 15 giorni previsti per la convocazione delle Camere e la designazione delle deputazioni regionali, prima che i cosiddetti «mille elettori» (ma sono qualcosa di più) comincino a votare per il nuovo inquilino del Quirinale. E scatterebbe pure, anche se le prassi costituzionali non sono univoche, la supplenza da parte della seconda carica dello Stato. Cioè del presidente del Senato, Piero Grasso. Uno schema che impone un’osservazione inquietante: se un lampo non illuminerà i politici, il successore di Napolitano rischierebbe di essere eletto da un Parlamento in articulo mortis.
Per come si sono messi troppi fattori, è ormai un’ipotesi più che sensata. Infatti, per il presidente il limite di «sostenibilità» di un incarico così gravoso, sia sul piano istituzionale sia su quello personale, sembra ormai sul serio alle soglie di esaurirsi. Forse senza possibilità di ripensamenti, a costo di dover certificare un fallimento — in questo caso del Parlamento — rispetto alla speranza di potersene andare lasciando il Paese più «in ordine» di un anno fa. Sulle sue scelte incombe anzitutto un problema di «sostenibilità» fisica, perché Napolitano è da mesi perseguitato da una serie di disturbi e acciacchi che gli impongono fastidiose terapie e lo fanno dormire poco e male. Tanto da confidare di recente ad Alfredo Reichlin, coetaneo e sodale di una vita: «Non ce la faccio più».
Guai su cui potrebbe forse anche passare sopra, per un altro po’, a un paio di condizioni. Se vedesse che il percorso delle riforme costituzionali, certo non brevissimo, fosse costruttivamente imboccato. E se si riuscisse a varare rapidamente almeno un nuovo sistema elettorale (da realizzare per legge ordinaria, dunque attraverso un itinerario meno problematico), in grado di sostituire il relitto legislativo che resta in piedi dopo la sentenza della Consulta sul famigerato Porcellum. Ma su entrambi questi fronti, che erano fra le precondizioni da lui poste per accettare un reincarico comunque a termine, nonostante i suoi continui richiami la politica è impantanata.
Non solo. Con i due maggiori partiti impegnati in reciproche prove di leadership e con intermittenti fibrillazioni su alleanze fondate solo su calcoli di convenienza, tra la seconda metà di gennaio e febbraio potrebbe accadere di tutto. Anche che il governo dichiari forfait, magari sulla base di qualche nuovo sondaggio, ciò che ucciderebbe la legislatura. E Napolitano, si sa, non vuole firmare uno scioglimento delle Camere che renderebbe l’Italia ingestibile per alcuni mesi, provocando un lungo stallo proprio quando l’Europa si aspetta da noi scelte concrete e convincenti sull’economia. Andandosene prima, il presidente metterebbe quantomeno l’intero sistema dei partiti di fronte alle proprie responsabilità.
Se tale scenario è davvero fondato e se non dovessero intervenire variabili che nessuno azzarda, la procedura potrebbe essere questa. A fine dicembre, durante l’incontro con le alte cariche dello Stato o nel messaggio agli italiani di fine anno, il preannuncio delle imminenti dimissioni. Poi, nel giro di qualche settimana, le dimissioni formali. Da quel momento scatterebbero i 15 giorni previsti per la convocazione delle Camere e la designazione delle deputazioni regionali, prima che i cosiddetti «mille elettori» (ma sono qualcosa di più) comincino a votare per il nuovo inquilino del Quirinale. E scatterebbe pure, anche se le prassi costituzionali non sono univoche, la supplenza da parte della seconda carica dello Stato. Cioè del presidente del Senato, Piero Grasso. Uno schema che impone un’osservazione inquietante: se un lampo non illuminerà i politici, il successore di Napolitano rischierebbe di essere eletto da un Parlamento in articulo mortis.
Marzio Breda
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