La regione di Petrich, nella Bulgaria sudorientale, è per l’industria tessile quasi meglio di un paese orientale: qui, ai margini dell’Europa unita, si può produrre a costi più che contenuti e senza neppure la fatica di dover traversare mezzo mondo per vedersi recapitata la merce. Nella regione più povera d’Europa, si calcola che metà della popolazione lavori (in fabbriche di grandi dimensioni, in scantinati o a domicilio) per conto di agenti greci che a loro volta operano per conto di grandi marchi e distributori. E le storie che si ascoltano sono gli sfoghi di chi sa di essere sfruttato ma non ha alternative.
Una lavoratrice, occupata da 18 anni in una fabbrica che produce per Tom Tailor e Zara, ha riferito ai ricercatori della campagna Clean Clothes di guadagnare 179 euro netti, comprese cinque ore di straordinario medie al giorno. Un’altra ha raccontato di cucire a domicilio perline sulle camicette di Benetton o Max Mara e di ricevere non più di un euro e mezzo per un’ora e mezza di lavoro. Una donna slovacca ha spiegato ai ricercatori che il suo salario è stato ridotto da 430 euro a 330.
Non si tratta di eclatanti eccezioni, bensì della normalità in paesi che sono a pieno titolo nell’Unione europea e in altri che ne hanno fatto richiesta o rimangono ai margini. E in molti casi i committenti sono, col solito meccanismo del lavoro in subappalto, multinazionali dell’abbigliamento. Nel 2013, si legge nel dossier “Stitched Up”, che accende i riflettori sulle condizioni di lavoro nell’industria tessile dell’est Europa ed è stato realizzato per conto della Commissione Ue, Bulgaria, Macedonia e Romania hanno fatto registrare salari minimi inferiori a quelli cinesi, Moldavia e Ucraina (prima della rivolta di piazza Maidan e della guerra civile nel Donbass) sono rimaste sotto l’Indonesia, nell’Anatolia Orientale i salari per i lavoratori dell’abbigliamento sono il 20 per cento al di sotto del minimo per vivere una vita appena dignitosa. Tradotto in cifre, si va dagli 81 euro al mese moldavi ai 129 bulgari. Nel migliore dei casi (in Croazia, Slovacchia e Istanbul) i salari non superano comunque i 300 euro.
Si tratta di un fenomeno che riguarda, secondo le stime dei ricercatori di Clean Clothes, almeno tre milioni di persone, che con le famiglie arrivano a nove milioni: solo nelle repubbliche ex sovietiche nel settore tessile sono impiegati 750 mila lavoratori regolari e 350 mila al nero. Quello che emerge dal dossier è che i paesi post-socialisti funzionano come bacino di lavoro a buon mercato per i marchi e i distributori occidentali della moda. A essere impiegate sono nella stragrande maggioranza donne (in Turchia addirittura il 90 per cento) che, come racconta una ricercatrice georgiana, «sono retribuite per quantità di prodotto realizzato e le loro paghe non superano i 104–124 euro al mese», mentre gli uomini lavorano «prevalentemente nel taglio e nella logistica e hanno un salario fisso di 124–145 euro mensili».
L’obiettivo della campagna Clean Clothes è arrivare a ottenere almeno il 60 per cento del salario medio nazionale. Ma al momento si tratta di una chimera, sia per la mancanza di una legislazione comune, nei paesi che aderiscono all’Ue, sia per l’assenza totale di protezione legale in Paesi come la Georgia, sia per la deregulation contrattuale e per la difficoltà di controllare la filiera produttiva, cosa che consente a padroni e padroncini di comportarsi nel modo in cui viene raccontato da una lavoratrice rumena con venticinque anni di servizio: «Raggiungo a malapena il minimo salariale, c’è stato un mese in cui non ce l’ho fatta neppure lavorando di sabato. Se dico al capo che qualche volta non raggiungo il minimo se non vengo a lavorare di sabato, lui mi risponde: “E allora vieni di sabato”».
La conclusione del gruppo di ricerca è in controtendenza rispetto a quanto il buonsenso potrebbe suggerire: a queste condizioni è meglio la disoccupazione, perché «forme di occupazione con livelli retributivi eccessivamente bassi creano povertà anziché combatterla». Anche perché a guadagnarci, in questi anni, sono state solo le multinazionali che hanno spostato la produzione dove il lavoro costa meno, i sindacati sono più deboli e i controlli meno stringenti. I ricercatori mettono in evidenza come i più noti marchi della moda siano riusciti a guadagnare dalla crisi economica. I profitti per le big companies sono schizzati alle stelle: dagli 11,8 miliardi di fatturato del 2008 ai 16,98 del 2013 per H&M; da 10,41 miliardi del 2008 a 16,72 per Adidas, i cui lavoratori ricevono nove euro al giorno (per dieci ore di lavoro) in Bosnia e cinque (per otto ore di lavoro) in Georgia. Molti, per poter sopravvivere, sono costretti a fare anche un secondo lavoro oppure a dedicarsi all’agricoltura di sussistenza.
Ci sono poi alcuni “casi di studio”. Fra il maggio 2013 e il gennaio 2014 sono state intervistate 40 lavoratrici in diverse aziende croate e turche che producono vestiario per conto del marchio Hugo Boss. Le denunce riguardano i salari da fame, l’abuso degli straordinari, la libertà di associazione negata e l’assenza di contrattazione collettiva, la repressione dell’attività sindacale, con molestie, atti intimidatori e tentativi di corruzione, l’obbligo per le donne di non avere gravidanze. I ricercatori sono andati nella città turca di Batman, dove esiste un sistema di subfornitura simile a quello bulgaro di Petrich. In un piccolo laboratorio che impiega una ventina di donne kurde e alcune siriane hanno scoperto condizioni di lavoro al limite della schiavitù: dalle 9 di mattina fino a mezzanotte, senza straordinari e, in caso di ordini urgenti, fino al mattino successivo. Al nero e per 130 euro al mese. Gli ospedali, in caso di interventi gravi, chiedono il pagamento della prestazione. Le lavoratrici la prendono con filosofia: «Cerchiamo di non ammalarci».