by redazione | 19 Novembre 2014 9:22
È un gran libro metafisico, questo di Giorgio Agamben che esplicitamente conclude la vicenda dell’Homo sacer (L’uso dei corpi, Neri Pozza Editore, pp. 366, euro 18). Proprio perché metafisico è anche un libro politico, che in molte sue pagine ci restituisce l’unico Agamben politico che conosciamo (quando «politica» significa «fare» e non semplicemente strologare sul dominio, alla maniera dei giuristi e degli ideologi), quello de La comunità che viene. Ma in senso inverso, rovesciato. Il problema è sempre quello di una vita felice da conquistare politicamente ma, dopo vent’anni, questa ricerca non conclude né alla costruzione di una comunità possibile né alla definizione di una potenza – a meno di non considerare tale la «potenza destituente», auspicata in conclusione della ricerca. In quella prospettiva, la felicità consisterebbe nella singolare contemplazione di una «forma di vita» che ricomponga zoé e bíos e d’altra parte nella disattivazione della loro separazione, imposta dal dominio.
Nella «forma di vita» così definita, la potenza si presenta come uso inoperoso; la «nuda vita» non sarebbe allora più isolabile da parte del potere; qui invece starebbe il principio del comune: «comunità e potenza si identificano senza residui, perché l’inerire di un principio comunitario in ogni potenza è funzione del carattere necessariamente potenziale di ogni comunità». Solo allora avremmo di nuovo una politica della felicità. E qui comincia il difficile: quel «solo allora», quel futuro… Se tutto ciò si svolge nel tempo, in un tempo non ancora finito – richiede una strana teleologia, questo percorso: una forma di vita che è anche una forma di speranza? Comunque, già nell’«Avvertenza», Agamben ci svezza da ogni illusione – questo libro non è «né un nuovo inizio né una conclusione», la teoria «sgombera solo il campo dagli errori», e quando li ha ridotti all’inoperosità, la teoria apre alla pratica.
Se le cose stanno così, occorrerà in primo luogo fissare uno strumento, costruire un punto di vista che insegua quell’orizzonte non ancora finito. Come dare futuro alla forma di vita e potenza all’inoperosità: alla «potenza destituente»? La trama del libro si concentra su questo compito. Ritorniamo un momento indietro. Si sa che nella nuda vita risiede la condizione dell’esercizio del potere. È nell’eccezione chel’homo sacer è incluso/escluso dalla città ed è sull’eccezionalità che il potere si fonda. Questa, di tono schmittiano, è null’altro che una nuova maniera di dire Thomas Hobbes. Su questo snodo, tuttavia, l’insistenza è stata estrema. Come uscire da questa condizione? La comunità che viene nel ’90 ci mostrava il negativo, la mancanza, riscoperti e coperti dal desiderio – oggi invece vi è solo potenza destituente, la convinzione che non vi sia alternativa alla fuga nel confronto con il potere. Il potere è dominio. Esso non ha interna dinamica né relazione, sostiene Agamben. Nessun movimento: quindi, per esempio, ogni potere costituente non è eterogeneo ma consustanziale al potere costituito; ed ogni arché è insieme origine e dominio, sorgente e ordine – quindi questi rapporti vanno in ogni caso disinnescati perché in quella prospettiva l’archeologia filosofica può solo raggiungere un punto di origine ambiguo, e si tratta, secondo Agamben, di disattivare questa origine. La sua disattivazione è l’inoperosità. Resta il problema: e se invece il rapporto archetipo, origine-comando, fosse solo modello di mistificazione, di legittimazione di un potere sovrano? È a questa questione che deve rispondere il filosofo politico: che fare? Come aprire la temporalità?
Agamben si era a questo scopo in passato affidato a Heidegger – ora non più. Già nel Regno e la gloria, l’allontanamento da Heidegger era sembrato particolarmente forte. Qui, è confermato, e lo è in maniera definitiva. La rottura infatti riguarda la dimensione stessa dell’essere heideggeriano, la sua costitutiva relazione temporale, la tonalità emotiva fondamentale che domina il pensiero di Heidegger. È una possibilità ancora troppo densa, troppo piena di temporalità: essa assegna ancora all’uomo l’umanità come compito e questa determinazione può sempre aprirsi ad un’indicazione politica, ad un compito politico (affermativi? reali? il nazismo di Heidegger lo è certo stato). Ed anche quando il vivente si è nell’ultimo Heidegger ridotto ad un esserci che ha afferrato la sua animalità e ha fatto di questa la possibilità dell’umano, Agamben considera tutto ciò ancora interno ad una storia metafisica dell’essere, lo imputa all’incapacità di sottrarsi alla relazione e all’opera. Che estrema, ma anche strana, conclusione! Per evitare una risposta al quesito sulla temporalità, ripiega anche lui – Agamben – sull’animalità, retrogredendo il problema, lo adagia su un naturalismo mitico. L’intero «Intermezzo II» mostra la disarticolazione della temporalità e del progetto in Heidegger come definitivamente contradditorie ed insolubilmente legate all’incapacità di distinguere l’«essere-gettato» e l’«essere-portato».
Anche a Foucault, Agamben aveva dato fiducia nel tentare di risolvere quel problema della temporalità. Ora non più. Altrettanto violenta è infatti qui la rottura con il pensiero di Foucault e con la tematica biopolitica. Ciò che ad Agamben è insopportabile in Foucault è il fatto che egli abbia evitato quel confronto con la storia dell’ontologia che Heidegger si era dato come compito preliminare (ma non era appunto quanto si rimprovera ad Heidegger?). La forma di vita in Foucault non si distacca mai dalla relazione con sé e con gli altri, rimanda ad una soggettivazione etica che s’organizza in rapporti strategici – tutto ciò è da Agamben vivamente rigettato. È solo nell’ingovernabile, nell’inoperoso, dunque, visto dal punto di vista etico, che la vita si dà. Nell’«Intermezzo I», Agamben fa i conti con Foucault e li fa di nuovo attorno alla coppia potere costituente-potere costituito, soggettivazione-governo che costituiscono per lui un rapporto ontologicamente irriducibile. «Ciò che Foucault non sembra vedere … è la possibilità di una relazione con sé e di una forma di vita che non assumano mai la figura di un soggetto libero; cioè (se le relazioni di potere rimandano necessariamente ad un soggetto) di una zona dell’etica del tutto sottratta ai rapporti strategici, di un Ingovernabile che si situa al di là tanto degli stati di dominio che delle relazioni di potere».
Non era difficile immaginare che sarebbe andata a finire così e cioè nella ripetizione di una fuga dall’essere nella quale anche lo sbattere sul niente viene riconvertito nella felicità. Agamben, dopo tanti anni, corre il rischio di ritrovarsi d’accordo con Massimo Cacciari. Che quella inoperosità dovesse realizzarsi in un amplesso senza gioia di generare e dove solo il contatto, puntuale e disperato col nulla, portasse testimonianza dell’essere – i volumi precedenti, l’intero corso di Homo sacerlo aveva fatto sospettare. Ora è detto. Quanto dolore ci sta dentro.
Ma prendiamole una per una queste derive dell’inoperosità. Prendiamo ad esempio l’affermazione che il potere costituente sia del tutto legato e null’altro che immanente a quello costituito. Il potere costituente è, prima di tutto, lotta contro il potere costituito: certo, ma anche lotta contro se stesso. Il potere costituente è, sempre, desiderio, movimento, rapporto di forza. Nel biopolitico esso è ricondotto al concetto di lavoro-vivo, è dunque posto in una relazione che lo rende, ad un tempo, asimmetrico rispetto al potere costituito e decisivo tuttavia non solo nel riqualificare la realtà di quest’ultimo ma anche nel superarne la determinazione. Se la deriva inoperosa di Agamben è intesa a chiarire questa dinamica costituente e quindi (senza che egli lo voglia) a chiarirne anche l’effetto destituente che in esso vige, la deriva è utile.
C’è un altro punto particolarmente interessante in questo libro ed è l’analisi largamente portata da Agamben sul pensiero heideggeriano della tecnica. La prende da lontano, Agamben, questa storia, dalla figura dello schiavo così come è definito in Aristotele – per giungere a conclusioni che rovesciano la destinalità nihilista della tecnica in Heidegger. «La schiavitù sta all’uomo antico come la tecnica all’uomo moderno: entrambe, come la nuda vita, custodiscono la soglia che consente di accedere alla condizione veramente umana ed entrambe si sono rivelate inadeguate allo scopo, la vita moderna rivelandosi alla fine non meno disumana dell’antica». Eppure, dietro la sconsolata constatazione, c’è qui un recupero (finalmente!) della corporeità, dell’ergon (lavoro) come uso operoso del corpo – se la tecnica ha un destino eticamente negativo, vi è tuttavia qui per la prima volta un recupero del corpo al destino, una «strumentalità animata», dietro la quale appare con forza quella stessa relazione costitutiva-destitutiva che il potere costituente proponeva. Una riappropriazione di capitale-fisso da parte del lavoro vivo?
E ancora, quando vogliamo esperire il mondo come bene supremo, quando ponendo il rifiuto della proprietà, del proprio, riconosciamo l’uso in relazione all’inappropriabile – anche in questo caso quell’ambiguità intrinseca della relazione si spacca: perché da un lato c’è nell’uso il rischio di annullarsi nell’inappropriabile; dall’altro, dentro questa tensione all’inappropriabile, riconosciamo l’enorme positività dell’essere comune della potenza. All’animale la prima destinazione, all’uomo la seconda. Il francescanesimo ha vissuto questa alternativa.
Ed è così ovunque, in questo libro, dove ogni qualvolta la relazione pone con tutta la sua forza l’opera a confronto dell’effetto negativo del dominio che la divora e la distrugge, ogni volta ci ritroviamo nell’alternativa fra il chiudere la relazione fuori dalla relazione stessa, nell’illusione astrattamente logica di un esser fuori da ogni relazione – di immergersi in una sorta di béance, una inoperosità come vuoto impossibile da riempire – oppure, come in ogni radicale esperienza dell’immanenza (come in Spinoza), lì si trova l’altro corno della contraddizione, quello della pienezza operosa, etica, politica della beatitudine.
A me, che sono marxista, queste parabole agambeniane fanno l’effetto di assistere ad uno spettacolo nel quale qualcuno ha colto il problema e non vuole, meglio, non può più risolverlo. Che cosa vuol dire disattivare il dispositivo dell’operare? Per un marxista significa disattivare la relazione fra il dominio capitalista e il lavoro vivo: una relazione che è sempre chiusa dentro il capitale ma che, allo stesso tempo, è sempre fuori, asimmetrica, autonoma dal capitale – una relazione che il lavoro vivo mostra del tutto fuori-misura sul lato della produttività che solo il lavoro vivo produce. Può il lavoro vivo staccarsi dal capitale o essere staccato dal capitale? Lo può, organizzandosi e rompendo il rapporto. Una rottura mai piena, ma che sempre si ripete e si ripeterà, inscrivendosi ontologicamente nella storia dell’essere. Rifiutare di vedere questa relazione come l’unico destino presente all’opera, è il difetto di Agamben.
Agamben, in questo suo lavoro, ha tuttavia in modo netto e positivo definita l’attuale situazione della ricerca ontologica. Dopo Heidegger, nel postmoderno, l’ontologia si definisce non più come il fondamento del soggetto ma come una macchina linguistica, pratica e cooperativa, come tessuto della praxis, ed il dispositivo ontologico come asse di ricomposizione costituente dell’operare e del linguaggio nel comune. Questa riqualificazione dell’ontologia porta a tutt’altro che al nulla. Una banda di «filosofi non professionisti», da Nietzsche a Benjamin a Foucault, ha cominciato a leggere questo nuovo rapporto ontologico come decisivo sull’orizzonte dell’operare. Ed ha riaperto a Marx un terreno di azione. Questo Agamben sembra il disegno in negativo di questa vicenda – ma il riconoscimento di una nuova epoca dell’ontologia è pieno. Grazie!
Source URL: https://www.dirittiglobali.it/2014/11/giorgio-agamben-quando-linoperosita-sovrana/
Copyright ©2024 Diritti Globali unless otherwise noted.