Giorgio Agamben, quando l’inoperosità è sovrana

Giorgio Agamben, quando l’inoperosità è sovrana

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È un gran libro meta­fi­sico, que­sto di Gior­gio Agamben che espli­ci­ta­mente con­clude la vicenda dell’Homo sacer (L’uso dei corpi, Neri Pozza Edi­tore, pp. 366, euro 18). Pro­prio per­ché meta­fi­sico è anche un libro poli­tico, che in molte sue pagine ci resti­tui­sce l’unico Agamben poli­tico che cono­sciamo (quando «poli­tica» signi­fica «fare» e non sem­pli­ce­mente stro­lo­gare sul domi­nio, alla maniera dei giu­ri­sti e degli ideo­logi), quello de La comu­nità che viene. Ma in senso inverso, rove­sciato. Il pro­blema è sem­pre quello di una vita felice da con­qui­stare poli­ti­ca­mente ma, dopo vent’anni, que­sta ricerca non con­clude né alla costru­zione di una comu­nità pos­si­bile né alla defi­ni­zione di una potenza – a meno di non con­si­de­rare tale la «potenza desti­tuente», auspi­cata in con­clu­sione della ricerca. In quella pro­spet­tiva, la feli­cità con­si­ste­rebbe nella sin­go­lare con­tem­pla­zione di una «forma di vita» che ricom­ponga zoé e bíos e d’altra parte nella disat­ti­va­zione della loro sepa­ra­zione, impo­sta dal dominio.

Nella «forma di vita» così defi­nita, la potenza si pre­senta come uso ino­pe­roso; la «nuda vita» non sarebbe allora più iso­la­bile da parte del potere; qui invece sta­rebbe il prin­ci­pio del comune: «comu­nità e potenza si iden­ti­fi­cano senza resi­dui, per­ché l’inerire di un prin­ci­pio comu­ni­ta­rio in ogni potenza è fun­zione del carat­tere neces­sa­ria­mente poten­ziale di ogni comu­nità». Solo allora avremmo di nuovo una poli­tica della feli­cità. E qui comin­cia il dif­fi­cile: quel «solo allora», quel futuro… Se tutto ciò si svolge nel tempo, in un tempo non ancora finito – richiede una strana teleo­lo­gia, que­sto per­corso: una forma di vita che è anche una forma di spe­ranza? Comun­que, già nell’«Avvertenza», Agamben ci svezza da ogni illu­sione – que­sto libro non è «né un nuovo ini­zio né una con­clu­sione», la teo­ria «sgom­bera solo il campo dagli errori», e quando li ha ridotti all’inoperosità, la teo­ria apre alla pratica.

ASSENZA DI MOVIMENTO

Se le cose stanno così, occor­rerà in primo luogo fis­sare uno stru­mento, costruire un punto di vista che inse­gua quell’orizzonte non ancora finito. Come dare futuro alla forma di vita e potenza all’inoperosità: alla «potenza desti­tuente»? La trama del libro si con­cen­tra su que­sto com­pito. Ritor­niamo un momento indie­tro. Si sa che nella nuda vita risiede la con­di­zione dell’esercizio del potere. È nell’eccezione chel’homo sacer è incluso/escluso dalla città ed è sull’eccezionalità che il potere si fonda. Que­sta, di tono sch­mit­tiano, è null’altro che una nuova maniera di dire Tho­mas Hob­bes. Su que­sto snodo, tut­ta­via, l’insistenza è stata estrema. Come uscire da que­sta con­di­zione? La comu­nità che viene nel ’90 ci mostrava il nega­tivo, la man­canza, risco­perti e coperti dal desi­de­rio – oggi invece vi è solo potenza desti­tuente, la con­vin­zione che non vi sia alter­na­tiva alla fuga nel con­fronto con il potere. Il potere è domi­nio. Esso non ha interna dina­mica né rela­zione, sostiene Agamben. Nes­sun movi­mento: quindi, per esem­pio, ogni potere costi­tuente non è ete­ro­ge­neo ma con­su­stan­ziale al potere costi­tuito; ed ogni arché è insieme ori­gine e domi­nio, sor­gente e ordine – quindi que­sti rap­porti vanno in ogni caso disin­ne­scati per­ché in quella pro­spet­tiva l’archeologia filo­so­fica può solo rag­giun­gere un punto di ori­gine ambi­guo, e si tratta, secondo Agamben, di disat­ti­vare que­sta ori­gine. La sua disat­ti­va­zione è l’inoperosità. Resta il pro­blema: e se invece il rap­porto arche­tipo, origine-comando, fosse solo modello di misti­fi­ca­zione, di legit­ti­ma­zione di un potere sovrano? È a que­sta que­stione che deve rispon­dere il filo­sofo poli­tico: che fare? Come aprire la temporalità?

Agam­ben si era a que­sto scopo in pas­sato affi­dato a Hei­deg­ger – ora non più. Già nel Regno e la glo­ria, l’allontanamento da Hei­deg­ger era sem­brato par­ti­co­lar­mente forte. Qui, è con­fer­mato, e lo è in maniera defi­ni­tiva. La rot­tura infatti riguarda la dimen­sione stessa dell’essere hei­deg­ge­riano, la sua costi­tu­tiva rela­zione tem­po­rale, la tona­lità emo­tiva fon­da­men­tale che domina il pen­siero di Hei­deg­ger. È una pos­si­bi­lità ancora troppo densa, troppo piena di tem­po­ra­lità: essa asse­gna ancora all’uomo l’umanità come com­pito e que­sta deter­mi­na­zione può sem­pre aprirsi ad un’indicazione poli­tica, ad un com­pito poli­tico (affer­ma­tivi? reali? il nazi­smo di Hei­deg­ger lo è certo stato). Ed anche quando il vivente si è nell’ultimo Hei­deg­ger ridotto ad un esserci che ha affer­rato la sua ani­ma­lità e ha fatto di que­sta la pos­si­bi­lità dell’umano, Agam­ben con­si­dera tutto ciò ancora interno ad una sto­ria meta­fi­sica dell’essere, lo imputa all’incapacità di sot­trarsi alla rela­zione e all’opera. Che estrema, ma anche strana, con­clu­sione! Per evi­tare una rispo­sta al que­sito sulla tem­po­ra­lità, ripiega anche lui – Agamben – sull’animalità, retro­gre­dendo il pro­blema, lo ada­gia su un natu­ra­li­smo mitico. L’intero «Inter­mezzo II» mostra la disar­ti­co­la­zione della tem­po­ra­lità e del pro­getto in Hei­deg­ger come defi­ni­ti­va­mente con­trad­di­to­rie ed inso­lu­bil­mente legate all’incapacità di distin­guere l’«essere-gettato» e l’«essere-portato».

LE COP­PIE IRRIDUCIBILI

Anche a Fou­cault, Agamben aveva dato fidu­cia nel ten­tare di risol­vere quel pro­blema della tem­po­ra­lità. Ora non più. Altret­tanto vio­lenta è infatti qui la rot­tura con il pen­siero di Fou­cault e con la tema­tica bio­po­li­tica. Ciò che ad Agam­ben è insop­por­ta­bile in Fou­cault è il fatto che egli abbia evi­tato quel con­fronto con la sto­ria dell’ontologia che Hei­deg­ger si era dato come com­pito pre­li­mi­nare (ma non era appunto quanto si rim­pro­vera ad Hei­deg­ger?). La forma di vita in Fou­cault non si distacca mai dalla rela­zione con sé e con gli altri, rimanda ad una sog­get­ti­va­zione etica che s’organizza in rap­porti stra­te­gici – tutto ciò è da Agam­ben viva­mente riget­tato. È solo nell’ingovernabile, nell’inoperoso, dun­que, visto dal punto di vista etico, che la vita si dà. Nell’«Intermezzo I», Agam­ben fa i conti con Fou­cault e li fa di nuovo attorno alla cop­pia potere costituente-potere costi­tuito, soggettivazione-governo che costi­tui­scono per lui un rap­porto onto­lo­gi­ca­mente irri­du­ci­bile. «Ciò che Fou­cault non sem­bra vedere … è la pos­si­bi­lità di una rela­zione con sé e di una forma di vita che non assu­mano mai la figura di un sog­getto libero; cioè (se le rela­zioni di potere riman­dano neces­sa­ria­mente ad un sog­getto) di una zona dell’etica del tutto sot­tratta ai rap­porti stra­te­gici, di un Ingo­ver­na­bile che si situa al di là tanto degli stati di domi­nio che delle rela­zioni di potere».

Non era dif­fi­cile imma­gi­nare che sarebbe andata a finire così e cioè nella ripe­ti­zione di una fuga dall’essere nella quale anche lo sbat­tere sul niente viene ricon­ver­tito nella feli­cità. Agam­ben, dopo tanti anni, corre il rischio di ritro­varsi d’accordo con Mas­simo Cac­ciari. Che quella ino­pe­ro­sità dovesse rea­liz­zarsi in un amplesso senza gioia di gene­rare e dove solo il con­tatto, pun­tuale e dispe­rato col nulla, por­tasse testi­mo­nianza dell’essere – i volumi pre­ce­denti, l’intero corso di Homo sacerlo aveva fatto sospet­tare. Ora è detto. Quanto dolore ci sta dentro.

IL PRO­BLEMA DELLA TECNICA

Ma pren­dia­mole una per una que­ste derive dell’inoperosità. Pren­diamo ad esem­pio l’affermazione che il potere costi­tuente sia del tutto legato e null’altro che imma­nente a quello costi­tuito. Il potere costi­tuente è, prima di tutto, lotta con­tro il potere costi­tuito: certo, ma anche lotta con­tro se stesso. Il potere costi­tuente è, sem­pre, desi­de­rio, movi­mento, rap­porto di forza. Nel bio­po­li­tico esso è ricon­dotto al con­cetto di lavoro-vivo, è dun­que posto in una rela­zione che lo rende, ad un tempo, asim­me­trico rispetto al potere costi­tuito e deci­sivo tut­ta­via non solo nel riqua­li­fi­care la realtà di quest’ultimo ma anche nel supe­rarne la deter­mi­na­zione. Se la deriva ino­pe­rosa di Agamben è intesa a chia­rire que­sta dina­mica costi­tuente e quindi (senza che egli lo voglia) a chia­rirne anche l’effetto desti­tuente che in esso vige, la deriva è utile.

C’è un altro punto par­ti­co­lar­mente inte­res­sante in que­sto libro ed è l’analisi lar­ga­mente por­tata da Agamben sul pen­siero hei­deg­ge­riano della tec­nica. La prende da lon­tano, Agam­ben, que­sta sto­ria, dalla figura dello schiavo così come è defi­nito in Ari­sto­tele – per giun­gere a con­clu­sioni che rove­sciano la desti­na­lità nihi­li­sta della tec­nica in Hei­deg­ger. «La schia­vitù sta all’uomo antico come la tec­nica all’uomo moderno: entrambe, come la nuda vita, custo­di­scono la soglia che con­sente di acce­dere alla con­di­zione vera­mente umana ed entrambe si sono rive­late ina­de­guate allo scopo, la vita moderna rive­lan­dosi alla fine non meno disu­mana dell’antica». Eppure, die­tro la scon­so­lata con­sta­ta­zione, c’è qui un recu­pero (final­mente!) della cor­po­reità, dell’ergon (lavoro) come uso ope­roso del corpo – se la tec­nica ha un destino eti­ca­mente nega­tivo, vi è tut­ta­via qui per la prima volta un recu­pero del corpo al destino, una «stru­men­ta­lità ani­mata», die­tro la quale appare con forza quella stessa rela­zione costitutiva-destitutiva che il potere costi­tuente pro­po­neva. Una riap­pro­pria­zione di capitale-fisso da parte del lavoro vivo?

E ancora, quando vogliamo espe­rire il mondo come bene supremo, quando ponendo il rifiuto della pro­prietà, del pro­prio, rico­no­sciamo l’uso in rela­zione all’inappropriabile – anche in que­sto caso quell’ambiguità intrin­seca della rela­zione si spacca: per­ché da un lato c’è nell’uso il rischio di annul­larsi nell’inappropriabile; dall’altro, den­tro que­sta ten­sione all’inappropriabile, rico­no­sciamo l’enorme posi­ti­vità dell’essere comune della potenza. All’animale la prima desti­na­zione, all’uomo la seconda. Il fran­ce­sca­ne­simo ha vis­suto que­sta alternativa.

Ed è così ovun­que, in que­sto libro, dove ogni qual­volta la rela­zione pone con tutta la sua forza l’opera a con­fronto dell’effetto nega­tivo del domi­nio che la divora e la distrugge, ogni volta ci ritro­viamo nell’alternativa fra il chiu­dere la rela­zione fuori dalla rela­zione stessa, nell’illusione astrat­ta­mente logica di un esser fuori da ogni rela­zione – di immer­gersi in una sorta di béance, una ino­pe­ro­sità come vuoto impos­si­bile da riem­pire – oppure, come in ogni radi­cale espe­rienza dell’immanenza (come in Spi­noza), lì si trova l’altro corno della con­trad­di­zione, quello della pie­nezza ope­rosa, etica, poli­tica della beatitudine.

IL FON­DA­MENTO DEL SOGGETTO

A me, che sono mar­xi­sta, que­ste para­bole agam­be­niane fanno l’effetto di assi­stere ad uno spet­ta­colo nel quale qual­cuno ha colto il pro­blema e non vuole, meglio, non può più risol­verlo. Che cosa vuol dire disat­ti­vare il dispo­si­tivo dell’operare? Per un mar­xi­sta signi­fica disat­ti­vare la rela­zione fra il domi­nio capi­ta­li­sta e il lavoro vivo: una rela­zione che è sem­pre chiusa den­tro il capi­tale ma che, allo stesso tempo, è sem­pre fuori, asim­me­trica, auto­noma dal capi­tale – una rela­zione che il lavoro vivo mostra del tutto fuori-misura sul lato della pro­dut­ti­vità che solo il lavoro vivo pro­duce. Può il lavoro vivo stac­carsi dal capi­tale o essere stac­cato dal capi­tale? Lo può, orga­niz­zan­dosi e rom­pendo il rap­porto. Una rot­tura mai piena, ma che sem­pre si ripete e si ripe­terà, inscri­ven­dosi onto­lo­gi­ca­mente nella sto­ria dell’essere. Rifiu­tare di vedere que­sta rela­zione come l’unico destino pre­sente all’opera, è il difetto di Agamben.

Agamben, in que­sto suo lavoro, ha tut­ta­via in modo netto e posi­tivo defi­nita l’attuale situa­zione della ricerca onto­lo­gica. Dopo Hei­deg­ger, nel post­mo­derno, l’ontologia si defi­ni­sce non più come il fon­da­mento del sog­getto ma come una mac­china lin­gui­stica, pra­tica e coo­pe­ra­tiva, come tes­suto della pra­xis, ed il dispo­si­tivo onto­lo­gico come asse di ricom­po­si­zione costi­tuente dell’operare e del lin­guag­gio nel comune. Que­sta riqua­li­fi­ca­zione dell’ontologia porta a tutt’altro che al nulla. Una banda di «filo­sofi non pro­fes­sio­ni­sti», da Nie­tzsche a Ben­ja­min a Fou­cault, ha comin­ciato a leg­gere que­sto nuovo rap­porto onto­lo­gico come deci­sivo sull’orizzonte dell’operare. Ed ha ria­perto a Marx un ter­reno di azione. Que­sto Agamben sem­bra il dise­gno in nega­tivo di que­sta vicenda – ma il rico­no­sci­mento di una nuova epoca dell’ontologia è pieno. Grazie!



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