Zero emissioni. Se vogliamo evitare danni «gravi, diffusi e irreversibili», il rilascio di gas serra causato dal consumo di combustibili fossili dovrà essere azzerato entro la fine del secolo.
Mai prima d’ora l’agenzia Onu per i cambiamenti climatici (Ipcc) aveva affermato in modo così perentorio questo obiettivo, tanto radicale da apparire quasi fantascientifico. Lo ha fatto ieri a Copenaghen, presentando l’ultimo Rapporto che sintetizza lo stato delle conoscenze sul clima, l’impatto dei cambiamenti climatici e le strategie per mitigarli.
Dal punto di vista scientifico non ci sono novità di rilievo, ma dettagli e toni accrescono il senso di urgenza. Fatto numero uno: il riscaldamento globale esiste ed è causato dall’uomo. Due: gli effetti sono già visibili, in termini di livello dei mari, scioglimento dei ghiacci, eventi meteo estremi. Tre: il peggio deve ancora venire perché, nonostante summit e proclami, le emissioni globali invece di diminuire sono aumentate.
Per trovare concentrazioni simili nell’atmosfera bisogna riavvolgere il nastro della storia del pianeta di 800 mila anni. Le brevi serie di dati in controtendenza offrono un conforto solo illusorio, sostiene il rapporto: anche se la temperatura superficiale è cresciuta meno del previsto negli ultimi anni, la febbre della Terra salirà ancora e ancora, con tutto quello che consegue in termini di stress ambientali (estinzione di specie) e sociali (scarsità di cibo e conflitti).
La buona notizia, secondo l’Ipcc, è che potremmo disporre degli strumenti necessari per affrontare il problema, a patto di volerlo fare davvero. Per superare il picco delle emissioni nel 2020 e azzerarle nel 2100 si stima che gli investimenti nei campi delle energie alternative e dell’efficienza energetica dovrebbero aumentare di diverse centinaia di miliardi di dollari all’anno prima del 2030.
La battaglia ai cambiamenti climatici ridurrà la crescita economica, ma solo di una «piccola frazione», prova a rassicurarci l’Ipcc. Tergiversare è da irresponsabili: più aspetteremo a contrastare la malattia, più costosa e complicata sarà la cura.
Risulterà difficile, ad esempio, rinunciare a interventi di ingegneria climatica come lo stoccaggio dell’anidride carbonica nel sottosuolo. Un’opzione che a molti ambientalisti non piace.
«Le soluzioni sono tante, quel che serve è la volontà di cambiare», ha affermato il presidente dell’agenzia Rajendra Pachauri. Il messaggio fondamentale che arriva dalla Danimarca è che la scienza ha detto la sua, ora tocca ai governi. «È proprio questo il punto, i cambiamenti climatici non sono più un problema scientifico ma politico», dice al Corriere il fisico dell’atmosfera Guido Visconti. «Si ripetono sempre le stesse cose, alzando i toni ogni volta. Ma se non ci sono le condizioni per tradurre le intenzioni in azioni, non resta che l’adattamento». Ovvero mettere in atto delle misure per contenere i danni e accettare quel che non possiamo evitare.
Per gli Stati Uniti ha parlato il segretario di Stato John Kerry: «Chi sceglie di ignorare la scienza mette a rischio noi, i nostri figli e i nostri nipoti». Il ministro dell’Ambiente italiano Gian Luca Galletti invoca una «presa di coscienza globale».
Nel 2009 proprio Copenaghen era stata il teatro di un summit sul clima clamorosamente fallito, ma secondo alcuni commentatori le divisioni tra Paesi ricchi e poveri adesso sarebbero meno profonde di allora.
Il prossimo mese i negoziati riprenderanno in Perù e sarà la conferenza convocata a Parigi nel dicembre del 2015 a dirci se il clima sta cambiando anche dal punto di vista politico.