Franco For­tini, il lucido cantore del secolo breve

by redazione | 27 Novembre 2014 9:57

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Il 28 novem­bre di vent’anni fa moriva, all’età di 77 anni, il poeta e critico-saggista Franco For­tini, tra i più impor­tanti intel­let­tuali mar­xi­sti del Nove­cento euro­peo. Delle sue tante atti­vità vanno ricor­date quella di pub­bli­ci­ta­rio nella irri­pe­ti­bile «offi­cina» di Adriano Oli­vetti (dove era com­pa­gno di stanza di un altro poeta, Gio­vanni Giu­dici), di docente negli isti­tuti tec­nici di Milano e pro­vin­cia e nell’università di Siena, e di gior­na­li­sta, in par­ti­co­lare nella veste di col­la­bo­ra­tore assi­duo del mani­fe­sto (i suoi scritti dal 1972 al 1994 sono oggi rac­colti in due volumi pre­fati da Ros­sana Ros­sanda con il titolo Disob­be­dienze e pub­bli­cati dalla mani­fe­sto­li­bri nel nel 1996 e nel 1997).

L’occasione di que­sto ricordo è data oggi dalla pub­bli­ca­zione dell’intera opera poe­tica di Franco For­tini, a cura di Luca Len­zini, che del poeta fio­ren­tino è uno dei più colti e sen­si­bili inter­preti (Franco For­tini, Tutte le poe­sie, Mon­da­dori, pp. 881, euro 22). Si tratta di un libro che docu­menta l’intero per­corso poe­tico di For­tini, dai primi versi degli anni Trenta, vis­suti a Firenze sotto il fasci­smo, alle ultime can­zo­nette del Golfo degli anni Novanta, vis­suti a Milano sotto le «guerre uma­ni­ta­rie» degli Stati Uniti e dell’Europa (scri­vendo pro­fe­ti­ca­mente in una nota che la prima guerra del Golfo del 1991 apriva una «nuova èra nelle rela­zioni internazionali»).

L’AGO DEL MONDO

Il volume pre­senta inol­tre le tra­du­zioni dei suoi poeti più amati, testi­mo­nianza di un cosmo­po­li­ti­smo inter­cul­tu­rale che com­prende, tra le altre, la mera­vi­gliosa ver­sione dall’inglese del poe­metto Lyci­das di John Mil­ton, un mono­logo tra­gico scritto per un amico anne­gato e pieno di allu­sioni alle vicende politico-religiose del tempo. E poi Goe­the, Heine, Eluard, Bre­cht ed altri. La fun­zione poetico-politica di Bre­cht, in particolare,«magico con­giun­gi­mento di avan­guar­dia e di uma­ne­simo», ebbe grande impor­tanza nella poe­sia di For­tini e nella cul­tura ita­liana del dopo­guerra. Come scrive acu­ta­mente Luca Len­zini nella ricca intro­du­zione al volume, «il cri­tico e il poeta si muo­ve­vano in paral­lelo, e il ten­ta­tivo di For­tini di accli­ma­tare Bre­cht in un ter­reno ostile o poco ricet­tivo faceva tutt’uno con la fon­da­zione di un alveo per la rice­zione di se stesso».

La poe­sia – «ago del mondo» — è stata la forma espres­siva attra­verso cui que­sto intel­let­tuale polie­drico ha testi­mo­niato le sue con­trad­di­zioni più pro­fonde e quelle di un’intera epoca sto­rica che ha visto nel Nove­cento l’affermazione e la dif­fu­sione del comu­ni­smo come moto di libe­ra­zione uni­ver­sale, di cui For­tini è stato parte attiva e cri­tica. Que­sta dimen­sione uni­ver­sale, che in For­tini si tra­duce nell’adesione all’internazionalismo di matrice mar­xi­sta, è una delle com­po­nenti fon­da­men­tali per pene­trare e com­pren­dere i versi (e le prose) di un poeta con­sa­pe­vole che «il mondo (…) è e rimane la nostra unica spiegazione».

L’AVVENTURA DELLA SCRITTURA

Com­pren­dere se stessi attra­verso la com­pren­sione del mondo, e non vice­versa, signi­fica fuo­riu­scire, anche in ter­mini poe­tici, dalla sublime reli­gione della poe­sia, che For­tini ere­dita dai poeti «puri» e dagli ari­sto­cra­tici intel­let­tuali fio­ren­tini degli anni Trenta (quelli eso­ne­rati dal ser­vi­zio mili­tare, ricor­derà For­tini, e a cui pru­deva il panno gri­gio­verde) in dire­zione di un oriz­zonte che fu quello di uno dei suoi mae­stri, Gia­como Noventa, che invi­tava i gio­vani scrit­tori ad uscire dal pro­prio ego per andare al di là della poe­sia, per cer­care più in là. Nella sto­ria, nelle forme della pro­du­zione, nei con­flitti sociali. Per poi da que­sti ritor­nare alla poe­sia, alla sua irri­du­ci­bile spe­ci­fi­cità por­ta­trice di un pen­siero che spesso con­fligge con quello della prosa. In que­sta feconda dia­let­tica, che diviene anche tra­gica neces­sità, risiede la forza erme­neu­tica e la gioia dell’avventura for­male della scrit­tura poe­tica di For­tini. La quale trae le sue radici pro­fonde dagli anni della guerra e della lotta di libe­ra­zione, dai mesi dell’esilio a Zurigo, cro­ce­via degli anti­fa­sci­sti di tutto il mondo, dagli anni della costru­zione di un’Italia demo­cra­tica, in cui For­tini sco­pre la fun­zione tra­sfor­ma­trice del socia­li­smo e la rias­sume in una bel­lis­sima imma­gine di una con­ta­dina che negli anni della libe­ra­zione por­tava al pascolo il bestiame con un fucile sulle spalle. Un’immagine, dirà, che rias­sume il cam­bia­mento rivo­lu­zio­na­rio, che postula l’unità di pas­sato, pre­sente e futuro. Quando, con gli scon­vol­gi­menti dell’Italia resi­sten­ziale, il gio­vane intel­let­tuale piccolo-borghese sco­pre, come sem­pre egli affer­merà, che ci sono uomini e pen­sieri che prima di allora non ave­vano per te impor­tanza e che ora diven­gono cen­trali. «Gli uomini sono esseri mira­bili», scri­verà in una poe­sia dedi­cata al filo­sofo György Lukács. In que­sta koinè va ricor­data la straor­di­na­ria espe­rienza let­te­ra­ria e civile del Poli­tec­nico di Elio Vit­to­rini, di cui For­tini fu uno dei protagonisti.

 

Franco Fortini alla Olivetti nel  1947

Quella di For­tini è una poe­sia che simul­ta­nea­mente vivi­fica una strada di Firenze e un con­ta­dino cubano, una lam­pada dome­stica e un ritratto di Lukács, un ric­cio, una rosa, una magno­lia e i com­bat­tenti nella guerra civile spa­gnola, le Alpi Apuane e i salici della Cina, le descri­zioni di amori e amici e la lunga mar­cia. Una poe­sia dove il sog­getto si com­prende nell’oggetto, il par­ti­co­lare nell’universale, l’individuo nella sto­ria. In que­sta dia­let­tica vive l’ostinata ten­sione dei versi di For­tini. L’orizzonte del «dolo­roso mondo» è vastis­simo. E ognuno dei paesi, dei per­so­naggi, delle vicende nomi­nate assume un signi­fi­cato alle­go­rico e parla a noi. Non si tratta, per­ciò, di una curio­sità eso­tica o eru­dita, ma di una ten­sione verso l’altro che serve a capire meglio chi siamo e come pos­siamo pen­sare e agire. Del rap­porto con la Cina, una di que­ste fon­da­men­tali alle­go­rie di For­tini, un paese in cui si recherà per la prima volta nel 1955 scri­vendo il primo impor­tante repor­tage ita­liano sulla rivo­lu­zione maoi­sta, Asia Mag­giore, e per tanti anni cono­sciuto anche gra­zie all’opera media­trice di Edoarda Masi, dirà: «è mutato il mio modo di guar­darmi intorno; quella dif­fi­cile ten­sione fra simi­li­tu­dine e diver­sità, fra com­pren­si­bi­lità e incom­pren­si­bi­lità mi si accom­pa­gna ormai in ogni let­tura, anche se lon­ta­nis­sima da quel paese e da quella cul­tura. Non si tratta di leg­gere Petrarca o Machia­velli in chiave “sinica”. Per carità. Ma valu­tare … quali effetti magne­tici si deter­mi­nano, anche a nostra insa­puta, a par­tire da quella massa di pas­sato e di presente».

La dimen­sione inter­cul­tu­rale e inter­na­zio­na­li­sta di For­tini si salda con il suo tenace legame con la tra­di­zione let­te­ra­ria ita­liana, vero e pro­prio ser­ba­toio di reper­tori lin­gui­stici, metrici, tema­tici. Tra gli autori che hanno con­tato nel labo­ra­to­rio poe­tico di For­tini vanno sicu­ra­mente ricor­dati Tasso e Man­zoni, pre­senti in tante forme e in periodi diversi del suo per­corso poe­tico. Dei rotti, sin­ghioz­zanti ma anche squi­si­ta­mente melo­dici ende­ca­sil­labi della Geru­sa­lemme libe­rata di Tasso, For­tini amava l’irrisolta pola­rità tra male e bene, tra orto­dos­sia ed ete­ro­dos­sia, tra dovere e pia­cere in cui vedeva riflessa tanta parte del suo ago­ni­smo poe­tico e ideo­lo­gico. Dal peren­to­rio e austero anda­mento da mar­cetta degli Inni sacri di Man­zoni, pren­deva certe sue iro­ni­che o cupe invet­tive, così come dalla tra­gi­cità della Colonna infame un’idea della sto­ria in cui la pre­senza del male è ine­li­mi­na­bile pena la misti­fi­ca­zione con­so­la­to­ria. Una visione che ben si adatta a com­pren­dere la posi­zione di For­tini nei con­fronti de socia­li­smo nove­cen­te­sco, di cui sono testi­mo­nianza diverse poe­sie da A Boris Paster­nak Le dif­fi­coltà del colo­ri­fi­cio.

LA STA­TUA DI STALIN

Nono­stante la sua impla­ca­bile cri­tica alle dege­ne­ra­zioni buro­cra­ti­che e auto­ri­ta­rie di tanti di quei regimi, For­tini ha sem­pre luci­da­mente ricor­dato che è con quella sto­ria che noi dob­biamo fare i conti, una sto­ria di cui si sen­tiva comun­que parte e che egli vedeva sem­pre in modo dia­let­tico e con­trad­dit­to­rio. Ne è chiaro indi­zio il sog­getto del docu­men­ta­rio del 1963 La sta­tua di Sta­lin, in cui la sto­ria dell’Unione Sovie­tica viene ricor­data per la mèta che si pro­po­neva la rivo­lu­zione d’ottobre («mutare in libere scelte/quello che ancora ci sem­bra destino») nella costru­zione di un paese che cono­sce una straor­di­na­ria moder­niz­za­zione, che avrà un ruolo deter­mi­nante nella guerra anti­na­zi­sta e insieme che sarà attra­ver­sato dalla vio­lenza del gulag e dall’eliminazione fisica di migliaia di uomini e donne tra le quali non pochi comu­ni­sti bolscevichi.

L’umanità, la dol­cezza, la gene­ro­sità, la neces­sa­ria durezza e insieme la man­canza di sup­po­nenza e arro­ganza: que­ste erano le qua­lità di un poeta e di un cri­tico che acco­glieva i gio­vani nella sua casa mila­nese di via Legnano senza alcuna media­zione di par­tito, di acca­de­mia, di ceto. Un uomo che sapeva donare il pro­prio tempo, un intel­let­tuale che non cono­sceva la sti­ti­chezza della rela­zione (e per que­sto scher­zo­sa­mente era chia­mato «Lat­tes a lunga con­ver­sa­zione», richia­mando quell’originario cognome ebreo che dovette abban­do­nare dopo le leggi raz­ziali del 1938). In una dimen­sione in cui ha gran­dis­sima impor­tanza il valore auten­tico dell’amicizia, il senso fra­terno di stare tra com­pa­gni e di con­di­vi­dere «i destini gene­rali» del nostro tempo.

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