L’iniziativa prende avvio a pochi giorni di distanza dallo stop imposto dal governo italiano all’operazione Mare nostrum che in un anno ha salvato 160 mila migranti, e proprio come Triton punta sì al contrasto dei trafficanti di uomini, ma anche a una riduzione degli arrivi lungo le nostre coste.
I dubbi sulla nuova operazione nascono proprio sui metodi scelti per raggiungere questi due obiettivi. Anche se finora non c’è nulla di ufficiale al centro del Processo di Khartoum c’è la realizzazione di campi profughi nei Paesi che si trovano a Sud della Libia, in particolare Etiopia, Sudan, Sud Sudan e Niger, attraversati oggi con mille pericoli dai migranti prima di arrivare nel Paese nordafricano dove poi si imbarcano diretti verso le coste italiane. I campi dovrebbe essere gestiti dall’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati (Unhcr) e dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), e dovrebbero offrire un rifugio protetto ai migranti consentendo anche di stabilire quanti di loro hanno diritto alla protezione internazionale.
Da parte sua l’Europa si impegna ad accogliere, dividendoli nei vari Paesi membri, i rifugiati la cui richiesta di asilo è stata accolta. «In questo modo — spiegano al Viminale — riusciamo a togliere i profughi dalle mani dei trafficanti, dal momento che non dovrebbero più affidarsi a loro per attraversare il Mediterraneo».
Del Processo di Khartoum si è parlato ieri a Bruxelles nella sede del nuovo commissario europeo per l’immigrazione, il greco Dimitris Avramopoulos, mentre a dicembre a Ginevra si terrà la conferenza dei Paesi dell’Ue per stabilire le quote di accoglienza e i finanziamenti da destinare all’operazione. Soldi che dovranno servire anche per l’addestramento delle varie polizie di frontiera africane e per avviare campagne di informazione nei Paesi di origine dei migranti. Probabile, come già avviene in alcuni Paesi africani, che l’obiettivo sia quello di dissuadere quanti fuggono dall’intraprendere il viaggio, ponendo l’accento sui rischi che questo comporta.
Fin qui il progetto, che però al di là delle buone intenzioni non è privo di zone grigie. A partire dalla scelta fatta dall’Europa, e in particolare dall’Italia, di avviare rapporti di collaborazione con dittature come quelle presenti in Sudan e Eritrea. Come spiega don Mussie Zerai, presidente dell’Agenzia Habeshia che da anni denuncia le violenze del regime di Asmara. «Che garanzie offrono questi paesi perché l’Italia possa dialogare con loro?», chiede il sacerdote. «L’Onu ha avviato una commissione d’inchiesta proprio per accertare le violazione dei diritti umani in Eritrea, e adesso l’Italia legittima quel paese che è privo perfino di una Costituzione». Dubbi che si estendono anche alla realizzazione dei campi, che secondo don Zerai l’Europa potrebbe usare per raccogliere i migranti lasciandoli poi lì. «Campi così esistono già nel nord dell’Etiopia, dove sono stipati 80 mila profughi, e in Sudan dove migliaia e migliaia di persone aspettano mesi e mesi che qualcuno esamini le loro domande di asilo».
C’è poi, e non è certo secondario, il problema su chi garantisce la sicurezza dei campi. L’idea sarebbe di affidarla alla polizia dei locale che però, come ricorda don Zerai, è spesso corrotta e collusa con i trafficanti. «La mia paura — conclude il sacerdote — è che in realtà l’Europa voglia aprire quest campi per trattenere i profughi, impedendogli così di arrivare fino a noi».