by redazione | 27 Novembre 2014 9:17
In Eritrea da anni domina uno dei regimi più violenti al mondo. Il dittatore Isaias Afewerki, al potere dal 1993, non ha scrupoli con la popolazione locale e con quanti cercano di scappare dal paese. Chi sta con lui vive, chi lo contesta muore o è costretto a fuggire. Ricordare la violenza di questa dittatura è utile in vista della conferenza ministeriale organizzata dal viceministro per gli Affari Esteri Lapo Pistelli per oggi e domani a Roma con lo scopo di lanciare il Processo di Khartoum: un dialogo rafforzato tra i paesi africani e l’Ue per impegnarsi sulla gestione delle migrazioni. Alla conferenza prenderanno parte i rappresentanti dei paesi di origine e transito della Horn of Africa Migratory Route, la principale rotta migratoria verso l’Europa, tra i quali uno del governo eritreo. In concomitanza, il Comitato Giustizia per i nuovi desaparecidos ha convocato per domani una conferenza stampa alla Camera dei deputati per denunciare le morti di migranti nell’area mediterranea, ricostruire la verità, sanzionare i responsabili e rendere giustizia a vittime e familiari. A partire da quelle del regime eritreo. I portavoce del Comitato, tra cui Enrico Calamai, chiedono che il Processo di Khartoum non impedisca all’Italia di condannare Afewerki e di sostenere il popolo eritreo, vittima di una dittatura che ha cancellato ogni libertà, tutti i diritti civili e politici, qualsiasi tentativo di opposizione.
Le ultime elezioni si sono svolte nel 1994 mentre la costituzione, approvata nel 1997, non è mai stata applicata. Dal 2001 sono agli arresti una quindicina tra ministri, funzionari e alti ufficiali dell’esercito, senza essere comparsi davanti a un giudice per conoscere almeno le accuse a loro carico. E numerosi giornalisti, leader religiosi, politici, obiettori di coscienza, semplici cittadini, sono scomparsi in prigione, spesso senza processo. Secondo Amnesty International sono almeno 10mila i prigionieri politici eritrei rinchiusi nelle carceri di Asmara, alcuni anche da vent’anni. Lager in realtà, non semplici prigioni. Come ad Eiraeiro, dove molti sono morti durante la carcerazione, come i giornalisti Dawit Isaak (cittadino svedese oltre che eritreo) e Yohannes Fesshaye, del quale non si conosce nemmeno l’anno preciso del decesso. Vige nel paese inoltre la leva militare obbligatoria fino al 50esimo anno per gli uomini e al 40esimo per le donne. Gli eritrei di questa età non possono espatriare e molti, quindi, fuggono illegalmente, spesso morendo nel Mediterraneo o lungo il deserto, quando non diventano prede di trafficanti di esseri umani che, come denunciato dalle Nazioni unite, sono collusi con l’establishment militare.
Secondo il The human trafficking cycle: Sinai and beyond della giornalista eritrea Meros Estefanos redatto con van Reisen e Rijken dell’università olandese di Tilburg, sarebbero circa 30 mila le persone imprigionate, tra il 2009 e il 2013, da clan di beduini. Questi rapiscono i profughi in fuga dall’Eritrea, insieme a sudanesi ed etiopi, per ottenere un riscatto passato in pochi anni da mille dollari a persona a 30–40 mila. Il giro d’affari è di circa 622 milioni di dollari, 453 milioni di euro. Le vittime sono soprattutto giovani eritrei (circa nove su dieci, secondo il rapporto) e spesso vengono dai campi profughi in Sudan o dal campo militare di Sawa. I sequestratori sono invece militari eritrei che gestiscono i campi di addestramento e che li vendono ai trafficanti di uomini. Questi operano lungo la frontiera Sudan-Eritrea e appartengono alle stesse bande di predoni, legate a organizzazioni internazionali del crimine, che per anni, nel Sinai, hanno sequestrato, ricattato, torturato e spesso ucciso migliaia di persone che tentavano di varcare il confine tra Egitto e Israele.
Un business mafioso
La loro presenza ai margini del confine settentrionale eritreo è la prosecuzione dello stesso business mafioso, giocato sulla vita di chi cerca di evitare guerre e persecuzioni. L’unica differenza è che le basi operative dei vari clan si sono trasferite dal deserto del Sinai in Sudan, e che ai vecchi clan di predoni si sono aggiunti gruppi di terroristi che fanno del traffico di uomini una lucrosa fonte di finanziamento. Una spinta decisiva in questa direzione è arrivata dalla costruzione della barriera che ha blindato nel deserto la frontiera israeliana. La conseguenza non è stata la fine del flusso crescente di profughi ma solo il suo spostamento. I primi segnali si sono avuti con la presenza di emissari dei mercanti di morte intorno o addirittura all’interno dei campi profughi sudanesi: personaggi senza scrupoli che si propongono come intermediari per la traversata del Sahara verso la Libia o addirittura rapiscono nei campi le loro vittime per venderle alle varie bande organizzate. Questo sistema criminale si è ramificato intorno ai confini con l’Etiopia e controlla sia la frontiera che il suo retroterra, intercettando e sequestrando un numero crescente di profughi. L’ultima conferma viene da un episodio recente: almeno 15 ragazzi, tra i 20 e i 23 anni, sono stati catturati da predoni armati a pochi chilometri dal confine, mentre tentavano di raggiungere il campo di Shakarab o di proseguire verso Khartoum. La loro sorte è stata segnalata all’agenzia Habeshia dalla famiglia di uno del gruppo; un ventenne che, come i suoi compagni, ha disertato dall’esercito eritreo. Il ragazzo è riuscito a contattare un familiare attraverso il cellulare messogli a disposizione dai rapitori per chiedere il riscatto: 15 mila dollari. Una cifra inesigibile. «Piangeva e urlava di dolore – ha raccontato il familiare – perché durante la telefonata lo picchiavano e lo torturavano per rendere più convincenti le sue parole…». Lui stesso ha raccontato come è stato rapito e che erano una quindicina, incatenati l’uno all’altro, chiusi in una piccola casa nel deserto. Se la famiglia non riuscirà a pagare la sua liberazione sarà venduto ad un’altra banda e poi ad un’altra ancora, con crescita del riscatto ad ogni passaggio e la minaccia finale di passarlo ai trafficanti di organi per i trapianti clandestini.
Ricatti alle famiglie
Anche le famiglie di chi fugge subiscono continue ritorsioni; i genitori o i parenti di primo grado possono essere arrestati e obbligati a pagare una multa elevatissima. Un modo per l’Eritrea di rimediare risorse per la propria sopravvivenza: è la cosiddetta diaspora taxation. Ogni eritreo all’estero deve versare il 2% del proprio reddito al regime; una tassa pagata alla dittatura proprio da chi fugge da essa e cerca di ricostruirsi una vita. Il regime di Asmara liquida come provocazioni le contestazioni che si moltiplicano in Eritrea e all’estero tra le migliaia di rifugiati della diaspora e parla di congiura internazionale per giustificare la progressiva crisi del paese. Intanto la povertà domina.
L’Eritrea è uno dei paesi più poveri al mondo. Il pil pro capite è di 792 dollari l’anno. La carestia che ha investito il Corno d’Africa nel 2010 è stata devastante. Ma il regime ha negato l’emergenza e rifiutato gli aiuti internazionali per ragioni politiche e di prestigio, condannando la popolazione a sofferenze enormi. La dittatura è accusata anche di armare i gruppi fondamentalisti che operano nel Corno d’Africa. Hillary Clinton, allora segretario di stato americana, ne ha parlato fin dal 2008–2009, con riferimento agli estremisti islamici di Al Shebaab, il movimento legato ad Al Qaeda che opera in Somalia e vicino al califfato dell’Isis. Il medesimo gruppo che ha attaccato recentemente un autobus pubblico a Mandera, nel nord del Kenya, uccidendo 28 persone e ferendone molte altre. La stessa contestazione è stata mossa ad Asmara da tutti gli Stati del Corno d’Africa. La Svezia, invece, ha inserito nella lista dei personaggi da perseguire il presidente Afewerki e alcuni suoi ministri. La Chiesa eritrea ha denunciato duramente l’attuale situazione con una coraggiosa lettera pastorale firmata da tutti i vescovi. Inoltre, il Consiglio delle chiese, riunitosi a Ginevra nel luglio scorso, ha fatto proprie le posizioni dei vescovi eritrei e protestato contro l’arresto e detenzione ai domiciliari, dal 2004, del patriarca Antonio.
L’Eritrea è stata dunque isolata da quasi tutti i governi democratici. L’incontro del 28 novembre potrebbe essere l’occasione per un impegno reale dell’Italia contro il dittatore e in favore della popolazione eritrea. A patto di usare quel palcoscenico per combattere al fianco di un popolo oppresso e superare piccoli e grandi interessi che varie aziende italiane continuano ad avere con la dittatura. Ma questo è un altro capitolo che affronteremo a breve.
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