Molti dicono che in un cassetto della scrivania del capo del governo a Palazzo Chigi ci sia già una cartellina: con tre dossier. Tre potenziali identikit del futuro presidente della Repubblica.
Certo, Renzi in realtà vorrebbe rinviare il fischio d’inizio di questa partita. Continua a sperare di poter convincere Giorgio Napolitano «a resistere nel suo incarico fino al primo maggio».
Una data scelta non a caso. Contiene in se un valore politico ed uno simbolico. Per quel giorno spera che le Camere abbiano già approvato la delicata riforma elettorale, vero spartiacque di questa legislatura: «Ed io vorrei che fosse lui a firmare quella legge ». Il primo maggio, poi, si inaugura ufficialmente l’Expo di Milano che nei progetti di Palazzo Chigi dovrà rappresentare la vetrina per il rilancio internazionale dell’immagine del nostro Paese. Non solo. Il premier negli ultimi mesi ha scoperto in Napolitano una risorsa. Una sponda unica nelle questioni interne e di politica estera cui non vorrebbe rinunciare nel breve periodo.
Eppure le “grandi manovre” per la successione al Colle sono ufficialmente partite. Le intenzioni del capo dello Stato di rassegnare le dimissioni a conclusione del semestre di presidenza italiana dell’Ue hanno infatti già scatenato la “corsa”. Con tanti concorrenti impegnati in una gara ancora piuttosto lunga. Fatta di tanti ostacoli e strappi improvvisi. Di innumerevoli punti interrogativi e variabili imprevedibili. Un politico esperto come Pier Ferdinando Casini, ad esempio, ricorda bene che da sempre «chi entra Papa, esce cardinale». Chi pensa di entrare nell’emiciclo di Montecitorio con i voti in tasca, ne esce con le tasche vuote. A maggior ragione in questo Parlamento che – come ha dimostrato la tragicomica vicenda dell’elezione dei giudici costituzionali – si presenta piuttosto insofferente rispetto alla disciplina di partito e caricato di una dose massiccia di anarchia. La sola maggioranza governativa, dunque, sebbene sulla carta avrebbe i numeri per fare da sola.
In realtà non sarà sufficiente. Troppe le vendette da consumare nei confronti di Renzi. Troppo recente il ricordo dei 101 che fecero fuori nel 2013 prima Franco Marini e poi Romano Prodi.
In quella cartellina tenuta ben nascosta a Palazzo Chigi, allora, si compongono i tre identikit del futuro capo dello Stato. Il titolo del primo inserto è “I leader”. «Tutti i segretari del Pd – ripetono spesso alla presidenza del consiglio – si sentono candidati». Una lista piuttosto lunga da cui però vanno spuntati tutti quelli che per il nuovo corso Dem rappresentano una sorta di “seme del contropotere”. Un potenziale contraltare, se non un vero e proprio avversario della presidenza del consiglio. «Dopo quello che ha fatto, non parlatemi più di D’Alema », aveva detto ad esempio proprio Renzi quando si è conclusa la nomina di Federica Mogherini come Alto rappresentante Ue per la politica estera. Ma in quell’elenco ci sono pure Giuliano Amato, Pierluigi Bersani, Romano Prodi, Walter Veltroni, Piero Fassino, Dario Franceschini.
Sebbene non tutti sullo stesso piano. Veltroni ad esempio si è da tempo ritirato dalla “battaglia politica”, ha rinunciato volontariamente a candidarsi alle ultime elezioni politiche e Renzi non nasconde che il progetto costruito sulla cosiddetta «vocazione maggioritaria » del Pd è stato un suo punto di riferimento. Mentre l’ex premier e ex presidente della Commissione europea potrebbe essere la carta che in extremis Beppe Grillo potrebbe buttare nel campo democratico per far crollare in quel frangente il Patto del Nazareno con Silvio Berlusconi. Del resto proprio il Cavaliere per il momento non ha ancora indossato la divisa per scendere nell’arena che selezionerà il futuro inquilino del Colle. In uno degliultimi colloqui con il presidente del consiglio, a domanda esplicita e diretta ha risposto con un sorriso e un gesto. Ha messo la mano sulla spalla di Gianni Letta e ha detto: «È questo il mio candidato ». Un modo evidente per sottrarsi al gioco e non offrire indicazioni. Ma la gara prenderà un verso o un altro e i singoli candidati scaleranno la classifica in base alla qualità delle intese. Se intorno al perno-Pd ruoterà la Forza Italia di Berlusconi o il M5S di Grillo.
Poi, quindi, c’è il secondo inserto. Il titolo è “Le donne”. Il segretario democratico ha sempre puntato sulla svolta “rosa”. La lista, in questo caso, però è abbastanza corta: Roberta Pinotti, attuale ministro della Difesa; Anna Finocchiaro, presidente della commissione affari costituzionali del Senato. E qualcuno avrebbe visto di recente un’aggiunta: quella di Marta Cartabia, giudice della Consulta, giurista milanese vicina alle posizioni di Comunione e liberazione. Nel Pd tutti vorrebbero che la scelta cadesse su una di loro. Ma pochi credono che davvero siano candidature in grado di superare le forche caudine dell’assemblea congiunta di Camera e Senato allargata ai rappresentanti delle regioni. Gli oltre mille “grandi elettori” (1008), infatti, rischiano di essere un organismo ingovernabile se non in presenza di un nome capace di garantire un alto numero di votanti. Su di loro, allora, si consumerà sicuramente il primo tentativo del leader democratico. Per poi voltare pagina. Con le modalità che da qualche giorno vengono sinteticamente definite “sistema Gentiloni”. Il nuovo ministro degli esteri tirato fuori dal cilindro renziano dopo aver fatto circolare una ridda di nomi tutti al femminile.
Ed ecco la terza cartellina. Il titolo è gli “Outsider”. In realtà il loro identikit è quello che più si adatta alla linea renziana. Fuori dalla logica del “contropotere”. Figure che allo stato non si mostrano potenzialmente in grado di rappresentare un “contropotere”. Immagini non consumate, per alcuni di loro anche con l’atout della tradizione comunista. E quindi con la possibilità di rivendicare la scelta con il “popolo del Pci” che ancora costituisce la base più larga degli iscritti al Partito democratico. In questa lista diversamente modulabile su un accordo con i grillini o con i forzisti – ricompaiono quindi due ex segretari come Piero Fasssino (ora sindaco di Torino) e Dario Franceschini (ministro per i beni culturali). Lo stesso Gentiloni e poi Sergio Chiamparino (governatore del Piemonte), Antonio Zanda (capogruppo Pd al Senato), Graziano Delrio (sottosegretario alla presidenza del consiglio), Pierluigi Castagnetti (segretario del Ppi quando Renzi esordiva in politica), Pierferdinando Casini (ex presidente della Camera e ora presidente della commissione Esteri del Senato) e Piercarlo Padoan (ministro dell’Economia e con uno standing europeo).
Ma esistono anche due “fuoriquota” che però nell’immaginario del vertice Dem non possono ascendere al momento la scala gerarchica dei candidati. Uno è Piero Grasso, presidente del Senato. Buoni rapporti con Berlusconi e all’inizio della legislatura un’ottima intesa con il M5S di Beppe Grillo.
Il secondo è Mario Draghi, presidente della Bce. Anche se nei giorni scorsi il banchiere centrale confidava al suo staff di «non voler andare al Quirinale: non mi sento tagliato per quel ruolo. Non voglio tagliare nastri e poi devo completare il lavoro a Francoforte ».
Il suo incarico del resto scade il 31 ottobre del 2019. Ma soprattutto Renzi lo vedrebbe come un tentativo di “commissariamento” europeo e di condivisione della leadership. Soprattutto sa che intorno a Draghi potrebbero coagularsi tutti gli “scontenti”, tutti quelli che vogliono vendicarsi. «Ma io – è il ragionamento che spesso fa il premier – posso contare su quasi 400 “grandi elettori”. Forse devo condividere un candidato, ma di certo nessuno può eleggere un presidente della Repubblica senza di me». La “corsa” verso il Quirinale è solo all’inizio. Ma la prima salita è già molto ripida.