by redazione | 11 Novembre 2014 8:58
Di questa prassi teorica sono testimoni i libri Animal Spirits: A Bestiary of the Commons (Nai), Media Activism: Strategie e pratiche della comunicazione indipendente (DeriveApprodi), nonché i numerosi saggi pubblicati su riviste francesi, portoghesi, spagnole, tedesche e statunitensi. È merito suo anche la traduzione e diffusione nei siti Internet italiani del «manifesto per l’accelerazionismo», testo di un gruppo di intellettuali e militanti europei dal quale prende avvio questo volume collettivo sugli Algoritmi del capitale (ombre corte). Un manifesto che ruota attorno alla centralità della macchina informatica nello sviluppo economico e nella vita sociale.
Già perché i computer e le rete che li collegano hanno una particolarità che spesso viene posta sullo sfondo della riflessione e della analisi del capitalismo contemporaneo: il computer è infatti una «macchina universale», che può cioè svolgere più operazioni a seconda di come possono programmate. Può infatti presiedere l’automazione di una fabbrica, svolgere funzioni amministrative, ma può anche facilitare la comunicazione sociale in quanto strumento comunicativo individuale o come media. Questa sua «universalità» ha due conseguenze destabilizzanti per le gerarchie sociali: la centralità della componente immateriale (il software) e l’accelerazione dei processi lavorativi e comunicativi alimentano infatti una trasformazione continua delle relazioni sociali, che può essere colta, non nella sua cristallizzazione quanto nel suo divenire.
Questo non significa che le macchine non abbiano più nessun ruolo. Continuano, ovviamente, a svolgere una funzione di governo del lavoro vivo, definendo intensità, velocità e divisione tecnica del processo produttivo, ma il centro nella produzione della ricchezza si sposta sempre più nella definizione dei programmi informatici che danno il ritmo e mettono in forma le relazioni tra macchine e essere umano. Allo stesso tempo, consentono di accumulare e elaborare informazioni e dati indispensabili ai processi di valorizzazione del capitale, sia come merci da vendere in forma aggregata sia come «conoscenza» generica da usare nell’innovazione dei prodotti e dei processi lavorativi. Esemplificativi a questo proposito sono i social network e lo sviluppo dei Big Data, veri e propri laboratori dove produzione di merci e complementare alla produzione di contenuti informativi, a loro volta «impacchettati» e «spacchettati» per alimentare altri settori produttivi. Ma anche realtà dove le macchine svolgono un ruolo ancillare rispetto la produzione dei contenuti, merce diffusissima, ma resa scarsa dalle norme dominanti sulla proprietà intellettuale, che legittimano l’espropriazione di quel comune che è la comunicazione sociale.
Il valore del volume curato da Matteo Pasquinelli non sta però solo nel riproporre temi e nodi teorici del cosiddetto capitalismo cognitivo. Rilevanti sono infatti le domande che alcuni degli autori pongono e anche le risposte che tentano di elaborare. Quel che emerge nei processi di «astrazione» dei processi produttivi e la rilevanza del computer in quanto macchina universale è l’apparente costituzione di una «totalità» che non consente contraddizioni e dunque la formazione di un «soggetto» politico antagonista. Alla tecnostruttura del capitale non c’è via d’uscita, se non la sottrazione e la costituzione di spazi sociali liberati dalla logica del profitto che hanno tuttavia l’ambizione di garantire il reddito a chi vi partecipa. Questa è una delle derive affrontate nel volume. Una visione tuttavia parziale e provocatoriamente impolitica, che compare qua e là nelle pagine del libro, ma che ha comunque forti echi nei movimenti sociali. Al moloch della produzione capitalistica viene talvolta contrapposta un «fare società» che prende congedo dalle strutture di dominio e governo capitalista.
Punto di forza di tale elaborazione è la moltiplicazione di figure sociali che passano continuamente il confine tra vita e lavoro, assegnando a quest’ultimo una dimensione coercitiva che nega ogni possibile processo di liberazione. Punto debole è il rifiuto di considerare il capitalismo come un rapporto sociale che definisce gerarchie e rapporti di forza (e dunque di potere) nella società. Un rapporto sociale che non si esaurisce sul posto di lavoro, ma che investe l’insieme delle relazioni sociali. Il «fare società» auspicato dai movimenti sociali è destinato a esemplificare uno «stile di vita» che funzione come motore sia nella sfera del consumo che nei processi di innovazione sociale.
Da questo punto di vista, la sottrazione al moloch della produzione è destinata ad alimentare processi di spoliticizzazione dell’agire sociale: un esito disastroso per i movimenti sociali, che puntano invece a una politicizzazione dell’agire sociale. Allo stesso tempo non è dato per scontato che una maggiore socializzazione e automazione del processo produttivo garantisca la formazione delle condizioni di una fuoriuscita dal capitalismo. La realtà, infatti, attesta che proprio in questa contingenza mostra una forma di dispotismo nelle relazioni sociali che tutto fa presagire, eccetto la fuoriuscita dal capitalismo.
Non si tratta dunque, attendere che lo sviluppo capitalistica raggiunga il suo acme affinché si creino le condizioni per il suo superamento, né di ritrarsi di fronte la tendenza «totalitaria» del processo produttivo. Più realisticamente, agli «algoritmi del capitale» vanno contrapposti dispositivi politici tesi a destrutturare la gabbia del lavoro salariato. Nei quali non c’è un solo protagonista — il knowledge workers o il precario o l’erede metropolitano dell’operaio massa — ma l’insieme delle figure lavorative. E’ questa la sfida da giocare, affinché si determini l’auspicato errore di sistema degli algoritmi del capitale.
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