Dalla guerra per procura a quella petrolifera

by redazione | 28 Novembre 2014 9:45

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«È il frutto della mia imma­gi­na­zione, o c’è in corso una guerra del petro­lio con Stati uniti e Ara­bia Sau­dita da una parte, con­tro Rus­sia e Iran dall’altra?». È quanto si è chie­sto il vin­ci­tore di due premi Puli­tzer Tho­mas Fried­man, sul New York Times a ini­zio novem­bre, quando si è comin­ciato a regi­strare il sin­tomo di qual­cosa in corso da tempo e ormai in dive­nire. Negli ultimi tempi, infatti, nono­stante alcuni eventi geo­po­li­tici abbiano creato con­di­zioni per sce­nari dif­fe­renti, si è assi­stito ad un aumento della pro­du­zione di petro­lio e ad un abbas­sa­mento pro­gres­sivo del suo prezzo. Chi ci perde? La situa­zione ovvia­mente non favo­ri­sce le eco­no­mie dei Paesi che il petro­lio lo pro­du­cono, o di que­gli Stati non intac­cati da vere e pro­prie guerre in casa: Rus­sia e Iran. Negli ultimi mesi i media inter­na­zio­nali si sono occu­pati della stramba situa­zione, pre­fi­gu­rando la «guerra del petro­lio» come un nuovo e con­tem­po­ra­neo ter­reno di con­fronto del mondo ormai mul­ti­po­lare. Non tutti con­cor­dano sulla visione di scon­tro geo­po­li­tico: sul Cor­riere Eco­no­mia del 3 novem­bre l’esperto di petro­lio Daniel Yer­gin, pur con­fer­mando il calo ver­ti­gi­noso del prezzo dell’oro nero, dal 20 al 25%, con il prezzo arri­vato a 85 dol­lari al barile, ha spe­ci­fi­cato di non rite­nere in corso una guerra, ma sem­pli­ce­mente un natu­rale anda­mento del mercato.

I «guru» che riten­gono che il mer­cato si muova di vita pro­pria, fanno una certa presa sulla stampa occi­den­tale; ma in casi come quelli in corso in que­ste set­ti­mane, rite­niamo che una cor­retta visione di quanto è in corso, sia ad appan­nag­gio di osser­va­tori più cinici, alla Fried­man. È indub­bio che il mondo mul­ti­po­lare abbia por­tato a nuovi equi­li­bri, o per meglio dire dise­qui­li­bri, e che ormai lo scon­tro tra potenze regio­nali e potenze che mirano ad un domi­nio totale, come gli Usa, si riservi di essere ritro­vato in ogni ambito. E quello petro­li­fero non è un busi­ness da poco, anzi, si tratta di un mec­ca­ni­smo capace di influen­zare le poli­ti­che degli Stati. Cosa è suc­cesso dun­que in que­sti ultimi mesi? L’Eco­no­mist ha pro­vato a spie­garlo, ponen­dosi – come Fried­man — una domanda reto­rica: «L’Isis sta ancora avan­zando, la Rus­sia, terzo più grande pro­dut­tore al mondo, è coin­volta nei fatti ucraini. Iraq, Siria, Nige­ria e Libia, tutti pro­dut­tori di petro­lio, sono in sub­bu­glio. Ma il prezzo è sceso di oltre il 25% da 115 dol­lari al barile a metà giu­gno a meno di 85 dol­lari a metà otto­bre, per poi risa­lire di poco. Tale cam­bia­mento ha con­se­guenze glo­bali. Chi sono i vin­ci­tori e vinti?» Nella pre­messa alla domanda, innan­zi­tutto, sem­bra esserci una sorta di rispo­sta al «natu­rale anda­mento del mer­cato» pro­spet­tato da Yer­gin. Ovvero, se i prin­ci­pali paesi che pro­du­cono petro­lio sono di fatto in guerra, il rischio reale dovrebbe essere quello di una poten­ziale dimi­nu­zione dell’offerta. E invece la pro­du­zione aumenta, ma dimi­nui­sce il con­sumo (da Europa e Cina per il ral­len­ta­mento delle pro­prie eco­no­mie). E l’anomalia pro­se­gue, per­ché il prezzo del petro­lio si abbassa.

Quanto alla domanda dell’Eco­no­mist, non sem­brano esserci dubbi: i vin­ci­tori in que­sta situa­zione sareb­bero Usa e Ara­bia Sau­dita (il Washing­ton Post lo ha chia­rito in un titolo a pro­po­sito, «Scende il prezzo del petro­lio e que­sto è posi­tivo per gli Stati uniti e nega­tivo per Mosca») men­tre gli scon­fitti sareb­bero Rus­sia e Iran. Saranno soprat­tutto que­ste due eco­no­mie a risen­tire della con­tra­zione del prezzo (per la Rus­sia la ven­dita di petro­lio signi­fica il 60% delle entrate totali, per l’Iran il 40). Quale potrebbe essere lo sce­na­rio a cui que­sta sot­tile guerra com­mer­ciale sta pun­tando? Non è dif­fi­cile intuirlo. Dalla Rus­sia ci si aspetta – con in più il carico delle san­zioni — un atteg­gia­mento più cauto riguardo l’Ucraina. Gli Usa vogliono una Mosca più prona ai voleri Nato e meno attiva, pro­ba­bil­mente, sullo sce­na­rio inter­na­zio­nale (basti pen­sare agli accordi con la Cina). Dall’Iran, ci si attende più mal­lea­bi­lità nei pros­simi nego­ziati per il nucleare, da effet­tuarsi pro­prio con Washington.

Per i fau­tori della teo­ria del «natu­rale anda­mento del mer­cato», invece, sarebbe suc­cesso que­sto: la guerra sca­te­nata dall’Isis invece di para­liz­zare il mer­cato, ha creato una sorta di sovrap­pro­du­zione di petro­lio, per­ché l’Isis si finan­zia anche con l’oro nero. Da 200 mila al giorno la pro­du­zione di barili sarebbe diven­tata di oltre 800mila. La que­stione è che sia la visione di quanto accade che fa Yer­gin, sia quella che fa Fried­man, uti­lizza gli stessi dati e le mede­sime con­si­de­ra­zioni: sovrap­pro­du­zione nelle zone col­pite dal con­flitto in Medio oriente, crisi eco­no­mica in Europa, ral­len­ta­mento della loco­mo­tiva mon­diale cinese e rivo­lu­zione ame­ri­cana con lo shale gas. Si tratta di sot­to­li­neare o meno, in chiave geo­po­li­tica, que­sti dati. È quanto fa Fried­man, quando afferma che il calo dei prezzi è sicu­ra­mente il risul­tato del ral­len­ta­mento dell’economia in Europa e in Cina, com­bi­nati con il fatto che gli Stati uniti stanno diven­tando uno dei mag­giori pro­dut­tori di petro­lio al mondo. «Il risul­tato netto – ha scritto Fried­man — è stato quello di ren­dere la vita dif­fi­cile per la Rus­sia e l’Iran, in un momento in cui l’Arabia Sau­dita e gli Stati uniti li stanno affron­tando in una guerra per pro­cura in Siria. Que­sto non è solo busi­ness, per­ché c’è la sen­sa­zione che si tratti di un guerra con altri mezzi: con il petrolio».

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