Una coalizione possibile

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Uno scon­tro a tutto campo, dun­que. Il sin­da­cato sta forse comin­ciando ad accor­gersi che, ormai defi­ni­ti­va­mente tra­mon­tata l’epoca della con­cer­ta­zione sacri­fi­cata sull’altare della “gover­na­bi­lità”, la con­ser­va­zione del lavoro scam­biata con il suo costante degrado è una pra­tica sui­cida, che la pro­messa della piena occu­pa­zione è diven­tata, dopo decenni di pre­ca­riato e inter­mit­tenza, una inde­cente chi­mera, che auto­riz­zare il lavoro gra­tuito (come nell’infame accordo con Expo) vuol dire aggre­dire quello retri­buito, che non vi è difesa pos­si­bile dei diritti indif­fe­rente alla loro esten­sione. La parola “unità”, troppe volte usata per discri­mi­nare gli esclusi sospet­tati di osta­co­lare il com­pro­messo con i “poteri rico­no­sciuti”, potrebbe final­mente riac­qui­stare un senso reale, inclu­sivo. “ Coalizione ” signi­fica in primo luogo com­pren­dere e com­bat­tere i nessi che ten­gono insieme il mec­ca­ni­smo gene­rale dello sfrut­ta­mento, lad­dove la per­se­cu­zione fiscale del lavoro auto­nomo povero e pove­ris­simo, l’economia poli­tica della pro­messa e l’eterna gio­vi­nezza del lavoro gra­tuito con­tri­bui­scono a com­pri­mere la dina­mica sala­riale e sot­to­porre il lavoro dipen­dente a una costante minac­cia. Lad­dove la sacra­lità della ren­dita finan­zia­ria, e l’ arti­fi­ciale scar­sità delle risorse che ne con­se­gue, per­pe­tuano situa­zioni di estremo disa­gio in cui pro­spe­rano e ingras­sano vec­chi e nuovi fascismi.

Dallo “scio­pero sociale”, para­dos­sale con­giun­zione di due ter­mini così dif­fe­renti, se non anti­te­tici, dovremmo avere appreso che non vi può essere “poli­tica indu­striale” senza poli­tica sociale, né poli­tica sociale senza poli­tica cul­tu­rale. Per que­sto diciamo che lo scio­pero sociale è uno scio­pero poli­tico, un sistema di lotte con­tro il “sistema paese” voluto dal “par­tito della nazione”. Capace di andare oltre le spe­ci­fi­cità e gli spe­cia­li­smi cate­go­riali, non diser­tando il pro­prio imme­diato ter­reno di lotta, ma apren­dolo. In que­sta dire­zione la gior­nata di ieri ci ha dato nume­rosi, sep­pur non defi­ni­tivi segnali. È chiaro che, in un simile con­te­sto, l’astensione dal lavoro, per chi ne pos­sieda uno dal quale sia pos­si­bile aste­nersi, non sarebbe più suf­fi­ciente. Così molte forme di inter­vento attivo negli ambiti in cui viene tratto pro­fitto dal lavoro gra­tuito o semi­gra­tuito o dal sem­plice eser­ci­zio della pro­pria socia­lità si sono espresse nella gior­nata di ieri (dai luo­ghi della movida ai musei affi­dati ai volon­tari, dalle scuole alle uni­ver­sità ai cen­tri com­mer­ciali e alle agen­zie di ero­ga­zione dei servizi).

Mau­ri­zio Lan­dini ha più volte agi­tato lo spet­tro dell’occupazione delle fab­bri­che, come passo ulte­riore ed estremo nella difesa del lavoro ope­raio. Per molti altri sog­getti l’occupazione sarebbe invece il primo pos­si­bile passo con­tro l’uso spe­cu­la­tivo o esclu­dente del patri­mo­nio pub­blico o pri­vato, per l’acquisizione di risorse negate e l’esercizio di un nuovo mutua­li­smo. Tutto que­sto costi­tui­sce un “tur­ba­mento” dell’ordine pub­blico e la poli­zia, inter­ve­nuta con­tro i mani­fe­stanti con man­ga­nelli e lacri­mo­geni in diverse città, si è pre­mu­rata di ricor­darlo sono­ra­mente. Ma si tratta di un ordine la cui ini­quità è tanto lar­ga­mente per­ce­pita che que­sta volta il ritor­nello dei “pro­fes­sio­ni­sti dello scon­tro” ha avuto la decenza di restare silente.



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