La Città Santa con i suoi simboli contesi torna al centro di una «guerra religiosa»

by redazione | 19 Novembre 2014 9:51

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Dopo la crisi della spianata delle moschee nelle scorse settimane, l’attentato alla sinagoga alla periferia di Gerusalemme getta nella crisi palestinese un ulteriore elemento di contrasto e rivalità.
Mette un ulteriore carico su equilibri precari, già provati da decenni di irriducibili rivalità e scontri politici, economici e sociali, aggiungendovi il fattore religioso. E ciò non giunge inatteso, ma a coronamento di decenni che hanno visto tale fattore crescere inesorabilmente e lasciare non solo irrisolti, ma ancor più complicati i rapporti tra ebraismo, cristianesimo e islam a Gerusalemme e in tutta la Terra Santa.
Motivi di tensioni e il crescere di rivendicazioni a sfondo religioso si son fatti negli ultimi decenni ancora più accesi, su tutti i fronti. I tradizionali luoghi cristiani soffrono da tempo l’erosione delle comunità cristiane orientali e scontano le divisioni confessionali e le diffidenze degli altri attori in gioco.
Vecchi presidi sopravvivono a fatica in un ambiente circostante che sembra relegare la presenza cristiana in second’ordine, nonostante una storia secolare ben diversa. I contrasti più evidenti riguardano però la comunità ebraica e quella musulmana, in una contesa che si sovrappone alla questione politica.
I luoghi sacri più sensibili sono quelli della spianata, con quella Cupola della Roccia e moschea di al-Aqsa che secondo i musulmani furono teatro dell’ascensione in cielo di Maometto.
Ma questi luoghi sono letteralmente costruiti sul Muro del Pianto e su ciò che rimarrebbe del Tempio che, sebbene azzerato dalle antiche distruzioni, sopravvive nelle pietre e nelle fondamenta proprio dei luoghi islamici.
Dopo la guerra del 1967 e l’unificazione sotto controllo israeliano della città, lavori di restauro e le difficili convivenze hanno visto scontri e contrasti di ogni tipo intorno a questi luoghi. Anche le ricerche archeologiche da una parte e dell’altra hanno spesso gettato benzina sul fuoco, sostenendo tesi che avallavano contrastanti rivendicazioni di primogenitura e diritti di proprietà, in quella che appare una situazione ancor più intricata degli stessi contrasti sul terreno tra israeliani e palestinesi.
Un fenomeno simile ha conosciuto la stessa Terra Santa nel suo complesso. L’identificazione e appropriazione di presunti luoghi sacri, legati alla storia biblica cara a ebrei ma anche a musulmani, sono spesso servite per sostituire rivendicazioni politiche o di occupazione del territorio.
Davanti all’espansione israeliana e alla riduzione della presenza cristiana, ebrei e musulmani hanno assecondato lo spuntare di luoghi sacri con la speranza che questo garantisse diritti di controllo e che fermasse le invadenze e le pretese degli uni e degli altri a corto di altri argomenti. Con il risultato di creare spazi religiosi e sacri di dubbio valore storico, e per di più non certo dettati da condivisioni tra le parti, bensì per tutt’altra finalità: marcare un territorio che l’impotente mediazione politica non riesce a difendere e legittimare.
L’attenzione ai luoghi religiosi proietta ora lo scontro su un terreno finora accuratamente evitato da Hamas, ma che riecheggia in una regione segnata da slogan jihadisti e con un Califfato alle porte. L’attentato dice in fondo che la difesa dei diritti dei musulmani sulla Cupola della Roccia e la moschea di al-Aqsa è una priorità e che insidiarli viene ricambiato con la stessa moneta.
E dice, soprattutto, ai salafiti critici al loro interno e ai jihadisti all’esterno, che Hamas (o chi c’è dietro l’attentato) se ne può far carico, rompendo ogni indugio.
Una pessima notizia per Israele, per la crisi palestinese e anche per tutto il Vicino Oriente.
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