Nel progettare una nuova forma di certificazione alimentare questi tre fattori sono invece gli elementi decisivi su cui puntare, soprattutto se posizionati nel contesto generale in cui viviamo, per lo meno per come è descritto dal dossier Ecomafiepubblicato da Legambiente lo scorso giugno. Solo nell’ultimo anno sono state censite 29.274 infrazioni nel settore ambientale, più di 80 al giorno, più di 3 ogni ora. E in massima parte hanno riguardato il settore agroalimentare (il 25% del totale). Il fatturato complessivo di queste frodi, sempre altissimo, ha sfiorato, in tempi di crisi nera, i 15 miliardi di euro. Di fronte all’avanzare di questa marea, se è fondamentale organizzare presidi e metterli in rete, come ha meritoriamente fatto – insieme ad altri movimenti in questi ultimi decenni — il movimento Slow Food, altrettanto fondamentale è incaricarsi della protezione e della difesa effettiva di queste realtà. Anche perché ci troviamo in un passaggio storico decisivo. Il presidente del consiglio Matteo Renzi ha dichiarato, poche settimane fa, che farà di tutto per sostenere il TTIP (Trattato transatlantico sul commercio e sugli investimenti).
Si è già discusso a lungo, per lo meno su questo giornale, sulle preoccupanti conseguenze che l’approvazione di questo trattato potrà avere soprattutto sul settore agro-alimentare europeo. Eppure un’efficace misura di contrasto e autodifesa potrebbe venire dalla semplice approvazione, in sede europea, del modello di certificazione e controllo ideato da Mario Pianesi nel 1980, l’«etichetta trasparente pianesiana». Questa forma di certificazione (presentata al senato italiano nel 2003; proposta e votata da quasi la metà del parlamento europeo nel 2009 e ancora nel 2014; oggetto di convegni, solo nell’ultimo anno, in 12 regioni d’Italia) funziona da decenni, è adottata da decine di aziende italiane e certifica, già oggi, più di 400 prodotti.
Sulla rivista Le Scienze, Dario Bressanini (autore di Le bugie nel carrello. Le leggende e i trucchi del marketing sul cibo che compriamo Chiarelettere 2013) l’ha definita «l’etichetta dei miei sogni»; Pietro Giordano, presidente di Adiconsum, l’ha proposta come certificazione guida per i consumatori, proprio perché capace di indicare le aziende che producono in modo sostenibile e che accettano di tracciare l’origine di tutti i loro prodotti. Perfino multinazionali come De Cecco e Ferrero hanno manifestato interesse per questa forma di certificazione. Prima che il TTIP venga sconsideratamente approvato dalla commissione europea, oltre tutto in un anno in cui l’alimentazione sarà al centro della visibilità mediatica per l’Expo di Milano, sarebbe importante che un movimento come Slow Food, che proprio in questo momento sta ragionando su come sperimentare nuove forme di certificazione ed etichettatura, facesse propria la battaglia del professor Pianesi (pioniere della macrobiotica italiana e promotore in Italia della prima cooperativa biologica nel 1975) affinché, tanto nel nostro Paese quanto in Europa, la sua proposta diventi legge.
Nell’incontro di Torino, Pietro Sardo ha sostenuto che le «etichette narranti» saranno una versione più semplice di quelle «trasparenti» pianesiane. È un peccato però che, nei prototipi mostrati, la semplificazione colpisca proprio alcune voci fondamentali, come quelle relative ai trattamenti chimici subiti dagli alimenti o all’impatto ambientale delle produzioni. Se «la trasparenza è un’autentica rivoluzione» non si capisce perché queste informazioni non possano essere raccontate. Forse è arrivato il momento, con il TTIP che incombe come un’ombra minacciosa all’orizzonte, che la passione per la narrazione si trasformi davvero in una battaglia morale e legale per la trasparenza.