Il contesto è differente ma molti di quegli argomenti sono gli stessi. Essenzialmente, il motivo per chiudere le carceri femminili è lo stesso di quello per imprigionare meno uomini. È l’argomento contro il complesso carcerario in sé, in favore di trattamenti dove le cose funzionano meglio dell’incarcerazione. Ma ci sono prove che il carcere danneggi le donne più degli uomini, quindi perché non cominciare da lì? Qualsiasi studio sulle donne che si trovano in carceri statunitensi mostra che per la maggior parte di loro si tratta di delinquenti non violente con scarsi livelli di istruzione, poche esperienze di lavoro e molteplici storie di abusi[4], dall’infanzia fino all’età adulta. È anche probabile che le donne, più degli uomini, abbiano dei figli che dipendono dal loro sostegno – 147 mila bambini[5] americani hanno la loro madre in carcere.
Gli Stati Uniti sono un paese di carceri. Più di un milione e mezzo[6] di persone sono in carcere. E questa fissazione con le punizioni è costosa. Cumulativamente, gli stati americani spendono più di 52 miliardi di dollari all’anno[7] per i loro sistemi carcerari. Il governo federale spende inoltre decine di miliardi di dollari per sorvegliare, perseguire e catturare persone, sebbene alcune ricerche mostrino[8]che la carcerazione danneggi il benessere individuale e non migliori la sicurezza pubblica. Quale scopo si cerca di perseguire sottoponendo le donne più maltrattate e impotenti, e non violente, all’ambiente costantemente negativo del carcere? I tentativi di far funzionare il carcere per le donne hanno solo perpetuato la crescita[9] dei complessi industriali carcerari, e anche il numero di persone incarceratecontinua a crescere[10].
Quindi qual è l’alternativa, considerando i livelli americani di incarcerazione femminile? Nel Regno Unito i sostenitori dell’abolizione del carcere femminile propongono la comunità[11] per le delinquenti non violente, e per quelle violente la custodia in piccoli centri vicino alle loro famiglie. Ci sono prove che simili approcci negli Stati Uniti possono funzionare. Le opportunità di testare alternative al carcere stanno aumentando in tutto il paese, e in alcuni posti ci sono stati risultati positivi per le donne che hanno preso parte a queste soluzioni alternative. Per esempio Project Redeply[12], un progetto finanziato con fondi di stato in Illinois, basandosi sulle prove che le delinquenti non violente vengono trattate in modo più efficace in comunità, ha ottenuto che dal 2011 – anno di fondazione del progetto – al 2013 ben 1376 persone non violente non finissero in carcere.
L’Oklahoma è attualmente al primo posto negli Stati Uniti per incarcerazione femminile pro capite. Quasi l’80 per cento[13] delle donne incarcerate in Oklahoma sono delinquenti non violente: sono in carcere prevalentemente per reati legati all’abuso di droga, allo spaccio di sostanze vietate, alla prostituzione, e per reati contro la proprietà. Women in Recovery[14], un programma avviato cinque anni fa, fornisce un’alternativa per le donne condannate per crimini legati all’alcolismo o alla tossicodipendenza. Questo programma include trattamenti e servizi completi come l’impiego e l’assistenza familiare. Le donne con bambini piccoli sono ammesse al programma con priorità. Quelle che completano il programma, che dura mediamente 18 mesi, presentano un alto livello di recupero dopo essere state rilasciate. Il coordinatore del programma mi ha detto che il 68 per cento delle donne che completano il programma poi non restano più coinvolte in casi con la giustizia.
Nonostante questi promettenti risultati ottenuti dai programmi alternativi alla detenzione, siamo proprio sicuri di esser pronti alla chiusura delle carceri femminili? Se consideriamo l’abolizione come una conquista dei cittadini e crediamo che alle donne debba essere permesso di saltare la coda lungo il percorso di recupero e di guarigione, ci sono dei passaggi che vanno considerati da una prospettiva femminista. È necessario comprendere il danno “incorporato” nell’attuale sistema carcerario ed esplorare le alternative che già esistono. Per esempio, Susan Burton – fondatrice di A New Way of Life[15], un gruppo che fornisce abitazioni provvisorie per le donne che escono di prigione a Los Angeles – indica che la prospettiva abolizionista trasforma le vite degli ex detenuti. L’assistenza diretta offerta da questi programmi ricongiunge le donne alle loro famiglie, comunità e città. I circoli[16] in uso in alcune comunità locali negli Stati Uniti, in Canada e in Nuova Zelanda forniscono dei modelli per questo genere di pratiche.
L’incarcerazione sistematica di massa non può essere risolta semplicemente fornendo assistenza a singole donne in difficoltà. Un altro passo verso l’abolizione richiede che la discussione sia spostata dal piano degli individui e delle comunità maggiormente danneggiati, controllati e cancellati dal sistema carcerario, al piano della sfera pubblica che accetta passivamente tutto questo. In parole semplici, dobbiamo smetterla di vedere le prigioni come una parte inevitabile della vita.
Se non possiamo chiudere le carceri femminili, possiamo almeno rallentare la loro espansione. Qualsiasi impegno per isolare le donne dalle loro comunità deve essere identificato e contrastato. A Denver, per esempio, la campagna Fail the Jail[17] ha contribuito a impedire l’aumento dei posti letto. Il direttore del progetto statale di reinserimento nella comunità mi ha detto che le alternative al carcere hanno dimostrato di aiutare le donne individualmente e hanno cambiato l’atteggiamento della comunità. La causa in favore della chiusura delle carceri femminili si basa sull’esperienza di ex detenute e attiviste secondo le quali le donne, madri e figure centrali per la comunità, possono trovare la loro strada quando sono rispettate e sostenute. È possibile immaginare un futuro senza prigioni femminili; la realizzabilità richiede un cambiamento ancora più grande nel modo di pensare.
* Patricia O’Brien è una professoressa associata al Jane Addams College of Social Work all’Università dell’Illinois a Chicago
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