Al netto delle discussioni mezzo stampa sul conflitto tra Germania e Mario Draghi, la situazione economica è peggiorata a tal punto che serve qualcosa di più dei bassi tassi e delle agevolazioni per il credito alle imprese. Se non cresce la domanda è difficile immaginare una inversione di tendenza degli investimenti privati.
Nel frattempo sono arrivate anche le previsioni economiche della Commissione Europea. Sono lo specchio fedele del fallimento delle politiche fino a oggi realizzate, e manifestano la difficoltà di intraprendere scelte capaci di portare fuori dalla crisi l’Europa. Se anche Jyrki Katainen sostiene che «la situazione economica e dell’occupazione non sta migliorando con sufficiente rapidità. La Commissione europea si impegna ad avvalersi di tutti gli strumenti e le risorse disponibili per aumentare la crescita e l’occupazione in Europa. Proporremo un piano di investimenti di 300miliardi di euro per rilanciare e sostenere la ripresa economica», qualcosa nella Commissione comincia a muoversi.
Lo shock ciclico del Pil intervenuto dal 2008 per quasi tutti i paesi euro ha prodotto danni persistenti nel sistema economico. Non solo le imprese tendono a contrarre gli investimenti mentre l’occupazione perde competenze con effetti cumulativi, ma la persistenza del processo «ciclico» negativo intacca le capacità produttive del sistema economico nel suo insieme.
In altri termini la crisi ha eroso la crescita futura dell’Europa, mentre il modello di equilibrio utilizzato dalla Commissione Europea avvicina sempre di più la crescita potenziale e quella reale. Nei fatti cresce la disoccupazione strutturale, cioè quella sulla soglia della crescita dell’inflazione, mentre la crescita del Pil potenziale, cioè sostenibile senza spinte inflattive, restando al solo caso dell’Italia, diventa addirittura negativa.
Questo è anche l’esito dell’errato modello utilizzato da Bruxelles e applicato testardamente per disegnare politiche economiche pro-cicliche: recessive quando il Pil cala, espansive quando il Pil cresce.
Esattamente il contrario di quello che servirebbe.
L’Europa si trova così davanti a un bivio. Un bivio che può essere rappresentato da un prima della crisi (2001–2007) e un dopo la crisi (2008–2014). Nei 7 anni pre-crisi la crescita del Pil ha registrato un valore cumulato prossimo al 14% per i paesi di area euro, che diventa negativo (-0,4%) nei 7 anni successivi.
Sono in particolare i paesi che hanno adottato pedissequamente le politiche europee a manifestare la maggiore differenza e sofferenza.
L’Italia passa da una crescita cumulata del 9% tra il 2001 e il 2007, ad una crescita negativa del 9% tra il 2008 e il 2014.
Proprio ieri l’Ocse ha previsto una crescita dello 0,2% per il 2015, penultima tra i Paesi G20. Valori migliori registra la Francia: rispettivamente +12,7% e +1%, ma la crescita del Pil potenziale si riduce a decimali. Persino la Germania passa da una crescita del 10% a un «modesto» +5,7%.
Inevitabilmente gli investimenti fissi seguono il ciclo economico, anzi contribuiscono a peggiorarlo. Se nel periodo tra il 2001 e il 2007 gli investimenti crescono del 17% per l’area euro, a partire dal 2008 registrano una contrazione del 20,6%. L’Italia è il paese che ha la maggiore divaricazione. Tra il 2001 e il 2007 questi crescono del 15%, ma durante la crisi crollano del 35%. La Francia fa solo un po’ meglio: dal +20% al –15.
La caduta del Pil potenziale e di quello effettivo, soprattutto per responsabilità delle politiche di austerità adottate come conseguenza del modello economico di riferimento dell’Ue, ha fatto crescere il rapporto debito/Pil nonostante la contrazione della spesa pubblica,la deregolamentazione del lavoro e la liberalizzazione di beni e servizi. Anzi, meglio sarebbe dire, a causa dell’ottusità di queste politiche.
Se nel periodo pre-crisi la crescita del Pil ha permesso di ridurre il rapporto debito/Pil, con il 2008 questo è cresciuto inesorabilmente e inevitabilmente.
Anche in Germania, benché abbia beneficiato di fattori eccezionali: il valore implicito più basso dell’euro-marco (40%) e politiche coerenti con il rafforzamento dell’export. Potremmo anche considerare la quota di debito pubblico «grigio» presso le loro casse deposito e presiti, ma il senso non cambia.
Quindi oggi le politiche economiche europee attraversano una fase persino molto più grave per credibilità di quella che sino a ieri le caratterizzavano. Le previsioni autunnali della Commissione sono, in qualche misura, lo specchio fedele della «incredulità» di quello che accade. Incredulità che diventa patetica se prendiamo le proiezioni di crescita per il 2015. Se dovessimo utilizzare la distanza tra le previsioni iniziali e il consuntivo degli anni passati, per l’Europa possiamo attenderci una crescita negativa tra il –1 ed il –1,5% per il 2015, mentre per l’Italia possiamo stimare una contrazione non inferiore al 2%.
È una ipotesi inaccettabile anche per i custodi dell’ortodossia. Le politiche monetarie non funzionano perché non arrivano là dove sarebbero più utili, nel mentre si riduce la domanda di credito in ragione delle prospettive per il futuro.
Qualcosa accadrà perché l’Europa non può consumare un ennesimo anno come o peggio di quello appena trascorso.
Peccato che abbiamo una direzione politica incapace di riprogettare una Europa che esca dalla depressione e all’altezza della sfida che l’attende.