“Io, volontario italiano a Kobane”

by redazione | 27 Ottobre 2014 16:03

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È partito venerdì scorso. Con due amici. Destinazione: Kobane. Si sono fermati poco prima, proprio sul confine, oltre Suruç, «Siamo stati in un accampamento autogestito, con i combattenti curdi», racconta: «Dormivamo in una moschea con altre 300 persone. Durante il giorno davamo una mano. Kobane era lì, a meno di un chilometro, di fronte a noi. Non sentivamo solo le esplosioni. Ma anche le urla. Era terribile».

D. (preferisce non usare il suo nome) è un ragazzo dei centri sociali milanesi. Ha 29 anni. Fa l’artigiano. Il 2 ottobre era a Napoli al corteo contro il summit della Banca Centrale Europea. Poi ha fatto i bagagli. Ed è arrivato in Turchia. Per una settimana è rimasto con i curdi giorno e notte. «Mangiavamo pane, brodaglia e melograno», racconta: «Quella è la terra del melograno, e abbondano». «L’alcool era bandito», continua: «Solo chai e sigarette». Nell’accampamento la vita era più rigida, mentre a Suruç, dice, «c’è tutto, è piena di vita, gli arrosticini per strada, i mercatini, internet, l’hotel dei giornalisti. Nei negozi lavorano molti profughi di Kobane: la solidarietà è fortissima, anche nei campi profughi, che si estendono a centinaia, lungo la strada da Sanliurfa a Suruç».

La presenza del Pkk nella zona è forte. Ma ad ospitarli era i lBDP, il partito curdo “della Pace e della Democrazia”. «Il sindaco, con cui abbiamo parlato a lungo, era del BDP. E faceva tutto il possibile per Kobani. Ogni giorno era sul confine per trattare con l’esercito sul rientro dei feriti, dei morti. E in città il partito finanzia e aiuta l’accoglienza degli sfollati». Tutti al cellulare, sempre: «Era l’unico modo per avere informazioni sui combattimenti in corso».

Fra Suruç e Kobani, spiega, non c’è alcuna distanza. Per la gente erano due città unite da un’unica popolazione: «Ho conosciuto tante famiglie divise. Un anziano girava con la foto del nipote sul telefono. Chiedeva: “l’avete visto? Sapete qualcosa?”. Dayane, una ragazzina di 17 anni, viveva a Kobani. Studiava ad Aleppo. È parente di un comandante rispettato, che sta ancora combattendo. E scappata tardi. Ha visto da vicino omicidi. Era scioccata. E si è aggrappata a noi. Io la distraevo mostrandole sul telefonino i video di snowboard, comunicavamo a gesti perché non parlava inglese. Ma ci capivamo».

Cosa pensavano del fatto che foste lì da volontari, e non da giornalisti come gli altri internazionali?
«Si mettevano la mano sul cuore. Quando ho detto ad alcuni curdi di qui, proprietari o dipendenti del kebab sotto casa, che partivo, erano emozionati. Mi dicevano: “Grazie, è importante”»

Perché è importante?
«Perché la solidarietà è importante. Perché far capire che questa guerra non è solo una guerra fra potenze, fra macchine, ma in mezzo c’è un popolo che ha degli ideali da difendere, è importante»

Tu sei andato per questo motivo?
«Io sento l’esigenza di partire ogni volta che una popolazione è costretta a subire soprusi, a lottare per la propria autodeterminazione. E in più in questo caso c’era l’aspetto politico»

Quale?
«I curdi non stanno combattendo solo contro l’Isis. Devono combattere anche contro uno Stato, la Turchia, che da sempre li reprime. Le loro rivendicazioni oggi sono state messe per iscritto, in 70 pagine di “Carta d’intenti per la Rojava”, ovvero per il riconoscimento dell’indipendenza della regione che comprende sia Suruç che Kobane»

Cosa apprezzi di quella carta?
«Tutto. Gli ideali, dal comunismo alla democrazia partecipata con cui è gestita la comunità. Poi il ruolo delle donne, in prima fila: la nostra responsabile nel campo era una volontaria, venuta apposta da Istanbul. Ho capito più cose sul femminismo in quell’accampamento che in 100 ore di discussione qui a Milano. E poi, mi ha convinto quello che ho visto: una solidarietà incondizionata, la capacità di confrontarsi, discutere, la tensione per una causa comune»

Ora oltre la causa c’è pure un nemico, i fondamentalisti dell’Isis…
«Penso che la nascita e lo sviluppo dell’Isis siano una delle tante conseguenze del capitalismo. Di quel capitalismo predatorio che ha portato a fare la guerra in Iraq ad esempio: una terra occupata per anni, dove gli aspiranti al califfato sono stati lasciati correre, per poi esplodere e causare altre guerre»

Cosa pensi di Isis?
«Che sono dei fascisti. Che vanno combattuti. Anche da noi, di sinistra. E anche in Italia»

Come?
«Cercando nuove alleanze con la comunità musulmana, ad esempio, per condividere i nostri ideali, per far capire che qui non ci sono solo Salvini e leghisti. E poi continuando a fare quello che facciamo nei centri sociali: allargare la rete della solidarietà dal basso. Proporre forme diverse di democrazia e convivenza»

C’erano altri volontari al confine?
«Internazionali pochissimi, una decina. Turchi invece moltissimi. All’accampamento ci accompagnava col suo macchinone un ragazzo di 25 anni di Diyarbak?r: lì ha un bar e organizza serate in discoteca. È venuto apposta, a 300 chilometri da casa, per portare il suo sostegno. Anche i giovani da Istanbul erano tanti, anche se da parte dei movimenti come quello di Gezi Park non c’è stata una presa di posizione netta a favore di questa causa»

Sapevano che eravate italiani?
«Conoscono l’Italia. Qualcuno ci ha citato addirittura Toni Negri: lì la conoscenza politica è altissima. La maggior parte però ci diceva solo: Italia = Juventus e Maradona. Un curdo quando ha capito che i miei due compagni erano di Napoli, ha messo dei soldi sulle mani e poi ha fatto il gesto di sgraffignarli via. Abbiamo riso troppo»

Avevi già avuto esperienze del genere?
«Sono stato spesso in territori di conflitto, dove scoppiano le rivolte, a seguire cortei e manifestazioni. Ma così vicino a una guerra mai, era la prima volta. È stato difficile»

Ora cosa farete, è finito tutto col rientro a casa?
«Assolutamente no. Organizzeremo una raccolta fondi da inviare al partito per l’accoglienza dei profughi. Faremo informazione dal territorio, per dare un’idea diversa da quella mainstream su quello che succede a Kobane. E poi cercheremo di fare pressione internazionale anche da qui perché la Turchia apra il confine per i volontari curdi, non solo quelli siriani, che sono decine di migliaia. Perché se solo potessero andare a combattere…»

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