Volontari. La meglio Italia
Sono soprattutto giovani ma anche disoccupati e pensionati. Sono cresciuti del 43 per cento in 10 anni. Insegnano italiano agli immigrati, assistono anziani e malati o si alleano con i comuni per pulire i muri dai graffiti selvaggi, recuperare chiese e coltivare orti urbani
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SI SONO fatti notare anche questa volta, ragazzini delle scuole o gruppi di amici con le maglietta delle squadre di calcio, giovani arrivati da altri paesi, pensionati. Tutti con un solo slogan: “Non chiamateci angeli del fango”, con la rabbia di chi sa che certe cose non dovrebbero succedere, col desiderio di fare un selfie per ricordarsi di essere stati lì. Ma l’alluvione di Genova che li riportati in prima linea ha anche messo in luce cose che non sapevamo: la crisi non uccide il volontariato, anzi, per certi aspetti lo rende più diffuso (per capirlo basta mettere insieme l’età sempre più precoce dei volontari in un Paese con il 44 per cento di disoccupazione giovanile). Non tutti hanno la voglia o il tempo di far parte di un’associazione, anche se queste sono aumentate di quasi il 30 per cento negli ultimi dieci anni (69mila quelle riconosciute, 201mila quelle che non lo sono se non attraverso una scrittura privata). Molti invece preferiscono rendersi disponibili due ore ogni tanto, anche all’ultimo momento, giusto il tempo di portare il sacchetto della farmacia a un’anziana che non riesce ad andarselo a prendere. E se c’è chi interviene quando il disastro è grosso, o vicino — da Firenze all’Aquila, e ora a Genova e a Parma — c’è anche chi preferisce dedicare al “suo” modo di fare attenzione agli altri un weekend o una vacanza.
A Genova, i circoli Arci non si sono limitati soltanto a pulire, ma hanno anche aperto i loro spazi per dare una cena a chi in quel momento faceva fatica ad averla. Nello stesso modo, gli stessi circoli Arci della Campania organizzano ormai da anni “villaggi” nei luoghi dove arrivano migliaia di lavoratori immigrati per raccogliere pomodori e fragole: si creano case, in tenda, in legno o in muratura, si prepara da mangiare e se avanza del tempo si cerca anche di organizzare lo svago dopo la cena. «Da tantissimi anni d’estate facciamo campi insieme agli immigrati, fin dal ‘90 — dice Francesca Coleti, segretario regionale — e adesso facciamo soprattutto insegnamento dell’italiano, mensa, accompagnamenti sanitari e legali. Attraverso l’insegnamento proviamo a ricostruire se sono stati vittime di tratta di esseri umani e stiamo facendo procedere la prima causa collettiva ».
Il Fai, Fondo italiano per l’ambiente, è un’altra grande organizzazione dove c’è chi come Patrizia Bordini suddivide il proprio tempo tra il lavoro materiale per rimuovere le pietre di Punta Mesco cadute alle Cinque Terre e quello in segreteria presso la sede milanese, mentre Aldo Magrucci, ingegnere informatico in pensione conduce il pubblico agli eventi nelle sedi dell’organizzazione e nel resto del tempo realizza il database per i volontari. E ancora: Daniela Luciana Tenore, che nella vita è photoeditor a Famiglia Cristiana , fa la guida a Villa Necchi e alla Rotonda, sede storica del Muba, il Museo per i Bambini di Milano.
A Torino, c’è l’Associazione CasaOz, che rivolge i propri servizi di accoglienza, sostegno e accompagnamento alle famiglie con minori arrivate in città per vivere l’esperienza di malattia in ospedale. CasaOz svolge da molto tempo mensa, accoglienza, compiti i bambini per che restano indietro (fratelli compresi), è un’oasi di vita privata, fuori dai tempi dei reparti, per chi ne sente il bisogno (questa stessa casa, forte di personalità che la affiancano come Luciana Littizzetto, ha appena aperto in centro anche un’altra sede, MagazziniOz, che svolgerà attività in favore della prima). Ma ci sono anche associazioni più vecchie, come il Sermig, che tra le altre cose organizza al mattino corsi di italiano per gli immigrati: quattro ore per chi le vuole, al costo di zero euro, per diventare come gli altri, qui nel mezzo di Porta Palazzo, cuore della città.
A Pozzallo, in provincia di Ragusa, Giovanni Colombo, 27 anni, non fa parte di un’associazione, ma con i suoi amici si occupa di insegnare italiano, procura vestiti e crea occasioni di socialità per chi arriva lì da un’altra parte della terra col desiderio di diventare migliore. Nelle Alpi Occidentali, invece, è Legambiente a occuparsi del lupo, con una serie di azioni per dimostrare come questo animale dovrebbe essere amico dell’uomo e invece è spesso cacciato, temuto, accusato di fatti che non commette. Al Parco Robinson di Tortona, invece, chi vuole può dare tra i 5 e i 19 euro per cani e gatti ospitati dal Comune: attraverso gare pubbliche — come in questo caso — o facendo beneficenza nei negozi (anche con pochi euro) si cerca di far arrivare il volontariato “indiretto”, quello di chi non riesce a fare nulla ma vuole comunque donare alle casse pubbliche o semipubbliche.
Qualche volta, anche le associazioni benefiche battono cassa, come è avvenuto pochi mesi fa alla San Vincenzo di Trieste: operativa dal 1887, nel 2014 ha lamentato 25mila euro di passivo, perfino troppo poco se si considerano le 1.748 persone e le 503 famiglie seguite. Organizzava mercati benefici e altre azioni per raccogliere fondi, ma alla fine mancavano sempre oltre 100.000 euro. E anche nelle aziende, comprese quelle dove c’è la cassaintegrazione, si cerca di aiutare gli altri. Come alla Fiat Mirafiori dove è scattata una catena di solidarietà nei confronti del figlio malato di un dipendente, a cui ciascuno può dare ciò che vuole passando semplicemente il proprio badge nella mensa.
Non è un caso, insomma, se negli ultimi dieci anni le associazioni, tanto per citare soltanto loro, che hanno iniziato a avvalersi dell’apporto di volontari sono oltre il 10 per cento in più. Il lavoro volontario rappresenta ora l’83,3 per cento delle risorse umane, una cifra che — benché solo in quelle associazioni in cui si riconosce solo una parte del volontariato — è di tutto rispetto. Ma ci sono anche forme nuove. Come le alleanze tra Comune e volontari, che nelle grandi città come Napoli, Roma, Bologna, hanno già prodotto o stanno per produrre la pulizia dei muri di un bene pubblico che magari risale all’epoca medioevale, o la trasformazione di un bene confiscato.
Anche i Comuni, del resto, si stanno rendendo conto dell’utilità di questo tipo di opere, e le agevolano ogni qual volta è possibile. Poi ci sono i supermarket delle buone azioni, do- ve si paga con il volontariato tutto ciò che si prende. È il caso di Modena, dove un anno fa si è iniziato con Portobello, un mercato dove chi compra cocomero e Coca Cola non paga nulla, ma in compenso si impegna a agire in favore di altri. Ci sono le vacanze solidali, dove chi va paga come se andasse in una vacanza-sul-serio ma aiuta realtà dove c’è bisogno di una mano, dai gruppi ambientalisti che si occupano di salvare balene spiaggiate al lavoro negli orti e nei campi liberi del Sud America.
E infine c’è chi non ha da offrire più di due ore, e quindi si mette in contatto con Romaltruista o Milanoaltruista, dichiarando quando e come la sua disponibilità può essere utilizzata. Anche di queste, apparentemente piccole cose, il volontariato italiano ha bisogno. Perché non c’è solo l’alluvione di Genova o i tanti altri disastri naturali e non solo, ma ci sono le centinaia, migliaia di casi umani in giro per le città. A Torino, qualche giorno fa, ha aperto uno sportello per combattere la solitudine e il senso di discriminazione di gay, lesbiche e trans over 60: almeno 7.000 di loro, è scritto, vivono soli in città. Che fare? Compagnia a casa, assistenza ai servizi che se ne occupano, qualche attività ricreativa. Chi ci avrebbe mai pensato se i loro compagni non fossero giunti fino a lì?
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