Ricostruzione. E’ la parola d’ordine. Un vice premier palestinese, Mohammed Mustafa, ha annunciato l’inizio dei lavori per il prossimo mese. Ma non si muove ancora nulla mentre l’inverno si avvicina e decine di migliaia di palestinesi non hanno più una casa dove ripararsi. Intorno al quel bulldozer che sbuffando va avanti e indietro c’è una città fantasma. Case polverizzate dalle bombe, chilometri di macerie dove si aggirano pochi esseri umani simili agli animali randagi nelle periferie urbane degradate. Regna un silenzio di morte, dei tanti uccisi da quelle bombe e cannonate. Sono indelebili i ricordi di quei giorni di metà luglio quando la zona est di Shujayea, con l’inizio dell’avanzata di terra israeliana, finì sotto un fuoco incessante di artiglieria e aviazione. Impressi nella memoria resteranno i volti sfigurati dal panico di uomini, donne con i bambini in braccio, degli anziani che, talvolta pestando cadaveri, scappavano in cerca di salvezza, fermandosi solo un attimo per raccogliere gli abiti che lanciavano dalle finestre quelli che vivevano in zone meno esposte. Molte decine di abitanti di Shujayea non ebbero scampo, diversi corpi furono recuperati sotto le macerie a distanza di giorni. Da allora Shujayea è un paesaggio lunare. E in questo silenzio agghiacciante vive Sami Sbeita. Da solo. La sua famiglia ha trovato riparo in una delle scuole occupate dagli sfollati. Lui però ha deciso di vivere in ciò che resta della sua casa. Un materasso gli rende meno duro il riposo notturno, un fornelletto a gas gli consente di prepararsi il pasto. «Non riesco a stare in una scuola tra centinaia, migliaia di persone, preferisco essere qui a casa mia – ci dice con un filo di voce — questa è la casa che aveva costruito mio padre. Stare qui per me vuol dire conservare la sua memoria, rispettare il suo lavoro. Non me ne vado, anche se non ho elettricità e acqua, perchè voglio ricostruire la nostra casa». Scorgiamo una tenda. Ci accolgono cinque membri della famiglia Jundieh. Ci viene offerto del caffè, l’ospitalità da queste parti è sacra anche quando non si ha più nulla. Anche i Jundieh, come tanti di Shujayea, hanno scritto su lastre di cemento il loro numero di telefono cellulare. «Speriamo che presto ci chiami qualcuno per dirci quando ci daranno il cemento e un po’ di soldi per cominciare i lavori», auspica Fadi Jundieh, seguito come un’ombra dal figlio in ogni spostamento sulle macerie: il pericolo di crolli è reale come quello di finire su un ordigno inesploso. L’ultima vittima appena qualche giorno fa, un bimbo di quattro anni che ha calpestato una bomba israeliana rimasta sul terreno. «Sino ad oggi da queste parti sono venuti solo quelli delle Nazioni Unite, assieme a un ingegnere. Hanno detto che ci daranno un risarcimento ma inferiore rispetto agli altri perchè la nostra casa non è distrutta completamente. Eppure resta in piedi solo qualche colonna di cemento», aggiunge Jundieh invitandoci ad osservare i resti dell’abitazione.
Risarcimento è un’altra parola d’ordine, come ricostruzione. Solo parole per ora. Il 12 ottobre al Cairo i palestinesi hanno ricevuto promesse di donazioni per 5,4 miliardi di dollari, ben oltre i 4 miliardi del piano presentato dall’Olp. Una cifra enorme, anche se insufficiente rispetto agli 11–12 miliardi che servirebbero secondo le stime fatte da alcuni esperti locali. Quando e come arriveranno quei fondi nessuno lo sa e ogni giorno se ne sente una nuova: parte delle donazioni rientrano nei finanziamenti già garantiti in passato da alcuni paesi; una fetta consistente dei 5,4 miliardi sarà gestita esclusivamente dall’Unrwa (Onu); metà dei fondi promessi coprirà il budget dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) per i prossimi anni. E altre ancora. Come saranno poi gestite le donazioni controllate dai palestinesi è un altro rebus. Tra vessili e fanfare il governo dell’Anp a inizio ottobre ha tenuto la sua prima riunione a Gaza dal 2007. L’ex premier del governo di Hamas, Ismail Haniyeh, ha accolto con abbracci e strette di mano il primo ministro “di consenso nazionale” Rami Hamdallah, ufficializzando il passaggio di consegne che però non è ancora avvenuto. Le amministrazioni governative di Cisgiordania e Gaza procedono in modo autonomo, con visioni spesso opposte, come se non fosse mai avvenuta la riconciliazione tra Hamas e Fatah. Richiedere un banale certificato prevede una procedura a Ramallah e un’altra a Gaza. Unificarle richiederà mesi, secondo gli ottimisti, anni per i più realisti.
Su tutto gravano le pesanti condizioni e restrizioni che il governo Netanyahu, in nome della sicurezza, ha imposto per autorizzare l’ingresso a Gaza del cemento e di altri materiali per le costruzioni (che, peraltro, in buona parte saranno acquistati proprio in Israele) e che escludono categoricamente qualsiasi coinvolgimento di Hamas. Le Nazioni Unite, anche con l’aiuto di telecamere, hanno l’incarico di monitorare in modo scrupoloso l’ingresso, la vendita e la destinazione dei materiali. Dodici importatori palestinesi hanno soddisfatto i “requisiti di sicurezza” e sono pronti ad accogliere nei loro magazzini il cemento. Sino ad oggi però Israele ha fatto transitare verso Gaza solo 400 tonnellate di cemento in una unica consegna e lascia intende che non ne permetterà altre se i palestinesi non si adegueranno alle sue condizioni per la gestione dei valichi. Hamas vuole mantenere un numero di suoi uomini al transito di Kerem Shalom. Da Ramallah ripetono che i controlli saranno effettuati solo da monitors del governo di unità nazionale e dall’Onu, come vuole Israele.
Di questo passo, come si è detto e scritto già tante volte, per ricostruire Gaza, le sue case, le sue infrastrutture ci vorranno anni, 10 forse 20. Le migliaia di posti di lavoro nei cantieri restano un sogno. E nessuno sa se un (probabile) fallimento dei negoziati indiretti al Cairo produrrà, come è già avvenuto ad agosto, una ripresa delle ostilità tra Israele e Hamas. «Tutti quelli che ho incontrato mi hanno chiesto di aiutarli a lasciare il paese – raccontava qualche giorno fa il singer più famoso della Palestina, il 24enne Mohammed Assaf, tornato a casa a Khan Yunis dopo mesi trascorsi all’estero — Vogliono andarsene perché non hanno speranza. I problemi qui sono enormi e complicati: l’assedio, la divisione (politica), le guerre…Anche io non avevo speranze, al massimo potevo aspirare ad un posto nella difesa civile per 300 dollari al mese. Poi ho avuto la fortuna, un anno fa, di vincere (il talent show) ‘Arab Idol’ ed è cambiato tutto». Ora persino quel lavoro e quel magro stipendio da 300 dollari sono un miraggio per i suoi coetanei a Gaza.