Shujayea, dopo le bombe il silenzio

Shujayea, dopo le bombe il silenzio

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Un pesante bull­do­zer fa su e giù, cari­cando e sca­ri­cando in un grosso box di metallo detriti di ogni genere. A breve distanza un gruppo di ragazzi osserva i movi­menti di ope­rai e auto­mezzi impe­gnati a rimuo­vere le mace­rie e a ria­prire alcune delle strade di Shujayea, uno dei cen­tri abi­tati più col­piti dall’offensiva israe­liana “Mar­gine Pro­tet­tivo” ter­mi­nata, o meglio sospesa, giu­sto due mesi fa. Domani al Cairo dovreb­bero rico­min­ciare i nego­ziati indi­retti tra pale­sti­nesi e israe­liani per il pro­lun­ga­mento della tre­gua e la fine dell’assedio di Gaza. Pochi pale­sti­nesi si fanno illu­sioni. I dele­gati israe­liani non andranno nella capi­tale egi­ziana per acco­gliere le richie­ste della gente di Gaza: libertà di movi­mento, piena ria­per­tura dei vali­chi di con­fine, costru­zione di un porto marit­timo e un aero­porto. Offri­ranno solo un’estensione del ces­sate il fuoco. Nes­suno però crede a una ripresa dei com­bat­ti­menti. «Tutti pen­sano alla rico­stru­zione, dai lea­der di Hamas alla gente comune – ci dice un gio­vane, Maher – non vogliamo un’altra guerra, ora vogliamo lavo­rare, avere una casa e sfa­marci». Aveva ragione quel cono­scente pale­sti­nese che, durante “Mar­gine Pro­tet­tivo”, ci spie­gava che i bom­bar­da­menti israe­liani che hanno distrutto o dan­neg­giato decine di migliaia di case e pro­vo­cato quasi 2.200 morti e 11 mila feriti, mira­vano a tenere i pale­sti­nesi impe­gnati per anni a rico­struire e a non pen­sare alla libertà che non hanno.

Rico­stru­zione. E’ la parola d’ordine. Un vice pre­mier pale­sti­nese, Moham­med Mustafa, ha annun­ciato l’inizio dei lavori per il pros­simo mese. Ma non si muove ancora nulla men­tre l’inverno si avvi­cina e decine di migliaia di pale­sti­nesi non hanno più una casa dove ripa­rarsi. Intorno al quel bull­do­zer che sbuf­fando va avanti e indie­tro c’è una città fan­ta­sma. Case pol­ve­riz­zate dalle bombe, chi­lo­me­tri di mace­rie dove si aggi­rano pochi esseri umani simili agli ani­mali ran­dagi nelle peri­fe­rie urbane degra­date. Regna un silen­zio di morte, dei tanti uccisi da quelle bombe e can­no­nate. Sono inde­le­bili i ricordi di quei giorni di metà luglio quando la zona est di Shujayea, con l’inizio dell’avanzata di terra israe­liana, finì sotto un fuoco inces­sante di arti­glie­ria e avia­zione. Impressi nella memo­ria reste­ranno i volti sfi­gu­rati dal panico di uomini, donne con i bam­bini in brac­cio, degli anziani che, tal­volta pestando cada­veri, scap­pa­vano in cerca di sal­vezza, fer­man­dosi solo un attimo per rac­co­gliere gli abiti che lan­cia­vano dalle fine­stre quelli che vive­vano in zone meno espo­ste. Molte decine di abi­tanti di Shu­jayea non ebbero scampo, diversi corpi furono recu­pe­rati sotto le mace­rie a distanza di giorni. Da allora Shujayea è un pae­sag­gio lunare. E in que­sto silen­zio agghiac­ciante vive Sami Sbeita. Da solo. La sua fami­glia ha tro­vato riparo in una delle scuole occu­pate dagli sfol­lati. Lui però ha deciso di vivere in ciò che resta della sua casa. Un mate­rasso gli rende meno duro il riposo not­turno, un for­nel­letto a gas gli con­sente di pre­pa­rarsi il pasto. «Non rie­sco a stare in una scuola tra cen­ti­naia, migliaia di per­sone, pre­fe­ri­sco essere qui a casa mia – ci dice con un filo di voce — que­sta è la casa che aveva costruito mio padre. Stare qui per me vuol dire con­ser­vare la sua memo­ria, rispet­tare il suo lavoro. Non me ne vado, anche se non ho elet­tri­cità e acqua, per­chè voglio rico­struire la nostra casa». Scor­giamo una tenda. Ci accol­gono cin­que mem­bri della fami­glia Jun­dieh. Ci viene offerto del caffè, l’ospitalità da que­ste parti è sacra anche quando non si ha più nulla. Anche i Jun­dieh, come tanti di Shujayea, hanno scritto su lastre di cemento il loro numero di tele­fono cel­lu­lare. «Spe­riamo che pre­sto ci chiami qual­cuno per dirci quando ci daranno il cemento e un po’ di soldi per comin­ciare i lavori», auspica Fadi Jun­dieh, seguito come un’ombra dal figlio in ogni spo­sta­mento sulle mace­rie: il peri­colo di crolli è reale come quello di finire su un ordi­gno ine­sploso. L’ultima vit­tima appena qual­che giorno fa, un bimbo di quat­tro anni che ha cal­pe­stato una bomba israe­liana rima­sta sul ter­reno. «Sino ad oggi da que­ste parti sono venuti solo quelli delle Nazioni Unite, assieme a un inge­gnere. Hanno detto che ci daranno un risar­ci­mento ma infe­riore rispetto agli altri per­chè la nostra casa non è distrutta com­ple­ta­mente. Eppure resta in piedi solo qual­che colonna di cemento», aggiunge Jun­dieh invi­tan­doci ad osser­vare i resti dell’abitazione.

Risar­ci­mento è un’altra parola d’ordine, come rico­stru­zione. Solo parole per ora. Il 12 otto­bre al Cairo i pale­sti­nesi hanno rice­vuto pro­messe di dona­zioni per 5,4 miliardi di dol­lari, ben oltre i 4 miliardi del piano pre­sen­tato dall’Olp. Una cifra enorme, anche se insuf­fi­ciente rispetto agli 11–12 miliardi che ser­vi­reb­bero secondo le stime fatte da alcuni esperti locali. Quando e come arri­ve­ranno quei fondi nes­suno lo sa e ogni giorno se ne sente una nuova: parte delle dona­zioni rien­trano nei finan­zia­menti già garan­titi in pas­sato da alcuni paesi; una fetta con­si­stente dei 5,4 miliardi sarà gestita esclu­si­va­mente dall’Unrwa (Onu); metà dei fondi pro­messi coprirà il bud­get dell’Autorità nazio­nale pale­sti­nese (Anp) per i pros­simi anni. E altre ancora. Come saranno poi gestite le dona­zioni con­trol­late dai pale­sti­nesi è un altro rebus. Tra ves­sili e fan­fare il governo dell’Anp a ini­zio otto­bre ha tenuto la sua prima riu­nione a Gaza dal 2007. L’ex pre­mier del governo di Hamas, Ismail Haniyeh, ha accolto con abbracci e strette di mano il primo mini­stro “di con­senso nazio­nale” Rami Ham­dal­lah, uffi­cia­liz­zando il pas­sag­gio di con­se­gne che però non è ancora avve­nuto. Le ammi­ni­stra­zioni gover­na­tive di Cisgior­da­nia e Gaza pro­ce­dono in modo auto­nomo, con visioni spesso oppo­ste, come se non fosse mai avve­nuta la ricon­ci­lia­zione tra Hamas e Fatah. Richie­dere un banale cer­ti­fi­cato pre­vede una pro­ce­dura a Ramal­lah e un’altra a Gaza. Uni­fi­carle richie­derà mesi, secondo gli otti­mi­sti, anni per i più realisti.

Su tutto gra­vano le pesanti con­di­zioni e restri­zioni che il governo Neta­nyahu, in nome della sicu­rezza, ha impo­sto per auto­riz­zare l’ingresso a Gaza del cemento e di altri mate­riali per le costru­zioni (che, peral­tro, in buona parte saranno acqui­stati pro­prio in Israele) e che esclu­dono cate­go­ri­ca­mente qual­siasi coin­vol­gi­mento di Hamas. Le Nazioni Unite, anche con l’aiuto di tele­ca­mere, hanno l’incarico di moni­to­rare in modo scru­po­loso l’ingresso, la ven­dita e la desti­na­zione dei mate­riali. Dodici impor­ta­tori pale­sti­nesi hanno sod­di­sfatto i “requi­siti di sicu­rezza” e sono pronti ad acco­gliere nei loro magaz­zini il cemento. Sino ad oggi però Israele ha fatto tran­si­tare verso Gaza solo 400 ton­nel­late di cemento in una unica con­se­gna e lascia intende che non ne per­met­terà altre se i pale­sti­nesi non si ade­gue­ranno alle sue con­di­zioni per la gestione dei vali­chi. Hamas vuole man­te­nere un numero di suoi uomini al tran­sito di Kerem Sha­lom. Da Ramal­lah ripe­tono che i con­trolli saranno effet­tuati solo da moni­tors del governo di unità nazio­nale e dall’Onu, come vuole Israele.

Di que­sto passo, come si è detto e scritto già tante volte, per rico­struire Gaza, le sue case, le sue infra­strut­ture ci vor­ranno anni, 10 forse 20. Le migliaia di posti di lavoro nei can­tieri restano un sogno. E nes­suno sa se un (pro­ba­bile) fal­li­mento dei nego­ziati indi­retti al Cairo pro­durrà, come è già avve­nuto ad ago­sto, una ripresa delle osti­lità tra Israele e Hamas. «Tutti quelli che ho incon­trato mi hanno chie­sto di aiu­tarli a lasciare il paese – rac­con­tava qual­che giorno fa il sin­ger più famoso della Pale­stina, il 24enne Moham­med Assaf, tor­nato a casa a Khan Yunis dopo mesi tra­scorsi all’estero — Vogliono andar­sene per­ché non hanno spe­ranza. I pro­blemi qui sono enormi e com­pli­cati: l’assedio, la divi­sione (poli­tica), le guerre…Anche io non avevo spe­ranze, al mas­simo potevo aspi­rare ad un posto nella difesa civile per 300 dol­lari al mese. Poi ho avuto la for­tuna, un anno fa, di vin­cere (il talent show) ‘Arab Idol’ ed è cam­biato tutto». Ora per­sino quel lavoro e quel magro sti­pen­dio da 300 dol­lari sono un mirag­gio per i suoi coe­ta­nei a Gaza.



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