by redazione | 21 Ottobre 2014 13:44
Così come avviene per qualsiasi processo messo in atto dall’essere umano allo scopo di raggiungere una conoscenza razionale, anche i tentativi di storicizzare il reale rivelano un fascino sottile (ma indiscutibile) nella piena contraddittorietà della propria natura. Scissi tra l’aspirazione all’oggettività e la possibilità di essere sottoposti a una messa in discussione costante, essi appaiono del tutto necessari alla comprensione del procedere umano, quanto necessariamente incapaci di rivelarne l’essenza reale. D’altronde, la volontà di ripartire in sezioni compiute e risolte, di attribuire una sequenzialità ordinata e coerente a quella massa informe di azioni ed episodi che si aggrovigliano nell’accadere quotidiano, non può che cedere a interventi di approssimazione più o meno volontari (se non convenienti) nonché a formulazioni molto efficaci ma non ugualmente esaustive. Lo sanno bene — giusto per fare un esempio — quanti si sono preoccupati di individuare una cronologia e, di conseguenza, una definizione per la modernità e per il suo posteriore superamento, (il cui esaurimento, a sua volta, sembra essere già stato segnato dalla periodica aggiunta di un ulteriore post–).
ATTRAVERSARE LA STORIA
Se la Storia è in gran parte una questione di formule e di narrazioni, alle quali contribuiscono — in maniera decisiva — considerazioni di carattere politico, culturale e morale, si potrà ben intuire in quale maniera il mondo occidentale abbia provveduto a individuare (nel percorso di evoluzione cronologica dell’uomo) epoche di progresso e di arretramento, di splendore e di panico, di fioritura artistica e di imbarbarimento e per quali ragioni una visione a tal punto manichea della realtà possa essere stata assunta nell’opinione comune, spesso, in maniera quasi completamente acritica. La volontà e, specialmente, il bisogno di credere in una società in grado di raggiungere lo stato più elevato della perfezione (secondo una visione costantemente autoreferenziale dell’esistere e dell’accadere) hanno indotto l’uomo contemporaneo a esaltare, oltre misura, la carica progressistica di quei periodi storici segnati da uno sviluppo sensibile della cultura e delle scienze, occultandone i caratteri deteriori (o, in questo caso, quelli maggiormente reazionari). Sebbene l’immagine stereotipa che ne è stata prodotta riassuma diversamente lo spirito del tempo, è proprio nel corso del Rinascimento, così come durante il Secolo dei Lumi, che la società sembra essere investita da angosce e da profondi timori, come mette in luce Pierfranco Pellizzetti in Storia della paura: gli inconfessabili retropensieri collettivi dell’Occidente (Mimesis, pp. 206, euro 18). A prendere campo, in questi casi, è «quell’involuzione nella rivoluzione che avviene tutte le volte in cui la rimessa in moto di fattori materiali e spirituali rompe le nicchie rassicuranti delle certezze consolidate in tradizione (e) la mente si libera delle gabbie protettive/ossessive create dal pensiero magico/religioso. Si inizia ad avanzare nell’ignoto. Una situazione che atterrisce, che determina paura del futuro».
Riattraversare l’Umanesimo, giungendo sino alla battaglia di Lepanto e all’Illuminismo rappresenta, per l’autore, una strategia di indagine, atta a identificare nuovi strumenti di analisi, più che a regredire sino a una visione ciclicamente ripetitiva dell’accadere storico. D’altronde quella che Pellizzetti si propone di realizzare, attraverso questo volume, è una lettura del tutto contemporanea delle nostre fobie sociali e, in modo particolare, delle modalità e delle ragioni per le quali esse sono riuscite ad avere una diffusione a tal punto capillare nel mondo occidentale. Il propagarsi di una paura dice molto del contesto che la ha generata e, in particolar modo, dei sistemi di potere a esso sottesi. Non a caso «nella società complessa e precaria, in cui viviamo attualmente, (sono) venuti formandosi stati ansiogeni di tipo totalmente diverso rispetto al passato; nei piani alti della piramide sociale e secondo modalità — appunto — “complessificate”, in una sorta di ambigua dualità; di non facile inquadramento, in quanto mimetizzate in quella zona grigia laddove il pensiero dominante oscilla tra il consapevole e l’inconsapevole, tra il parzialmente appercettivo e il relativamente subliminale. Riflessi automatici e reazioni finalizzate che determinano la drastica spaccatura dell’Io plurale in due emisferi, nettamente distinti: una parte fiduciosa e tuttora orientata al futuro e un’altra timorosa e retroversa». Due attitudini, queste, indubbiamente complementari e parimenti necessarie all’esercizio di un potere che si serve della paura e della fiducia nella possibilità di eliminarla — attraverso il crescente sviluppo tecnologico — allo scopo di direzionare consapevolmente il pensiero collettivo, verso posizioni profondamente reazionarie. Paura, quindi, «come tecnica di controllo sociale, attivato e incentivato da paure che si sono insinuate nella mente degli stessi controllori».
UN DIALOGO TRA LE FONTI
Dando vita a un eccellente dialogo tra le fonti, Pellizzetti realizza (in modo particolare all’interno dei capitoli iniziali) una analisi di grande interesse, che riesce efficacemente a inquadrare l’argomento da un punto di vista teorico. L’autore si rivela in grado, soprattutto, di stimolare una riflessione per nulla scontata sugli elementi di maggior rilievo politico e culturale, descrivendo — anche grazie alla grande varietà di riferimenti storico-letterari — una traiettoria dal grande respiro storico. Tuttavia, nel procedere del discorso sembra disperdersi la compattezza del pensiero, impegnato in analisi progressivamente più specifiche e meno brillanti. Sebbene attentamente compilate, la sezione centrale del libro e quella conclusiva appaiono (fatta eccezione per brevi passaggi) prevedibili nella loro articolazione e nei contenuti, quando non visibilmente inficiate dalle antipatie teoriche e politiche dell’autore stesso.
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