La scommessa di Hong Kong
HONG KONG. Ora basta, ha detto il governatore. Entro lunedì si torna a scuola.
Chissà se Leung Chun Ying, che tutti ormai chiamano sarcasticamente all’americana, “CY” (le sue iniziali), ha parlato apposta di “scuola”. E se l’ha fatto per ammettere suo malgrado il ruolo che questi mocciosi – molti sono davvero dei ragazzini, 16, 17 anni — stanno giocando per il futuro di un paese che fino a qualche giorno fa non sapeva di esserlo per davvero. O per sfotterli, prima di ordinare un massacro che secondo alcune voci sarebbe già stato deciso. Chissà.
Fatto sta che per ora, a fottersene degli ordini di un governatore di cui non riconoscono più l’autorità (al punto da mettere come condizione, per la ripresa di un “dialogo”, che lui non vi partecipi) sono proprio loro. I ragazzini di Hong Kong, puliti, ordinati, ma determinati e testardi come solo i ragazzini possono essere. “Non è una rivoluzione – ripetono come un mantra – è una protesta civile per ottenere quello che vogliamo”. Qualcuno azzarda commenti più profondi: “La libertà non è gratis. Bisogna pagare un prezzo per averla. E un altro per difenderla”. E’ il primo shock, per chi è abituato a vedere i nostri pargoli incollati alla tv o impegnati ad organizzare “sballi” vari. Ma poi ti ravvedi e dici chissà. Magari anche questi fino ad una settimana facevano la stessa cosa. E poi, improvvisamente, si sono svegliati.
Comunque sia, i ragazzi arrivano a migliaia: se il governatore aveva pensato di intimidirli, con il suo ultimatum, ha ottenuto l’effetto contrario. La stazione della metropolitana di Admiralty, la più vicina ai “territori occupati”, alle 10 di sera sembra quella di Tokyo nell’ora di punta.
Migliaia di ragazzi escono dai vagoni, “armati” di uno o più smartphone, allegri e sorridenti, come andassero ad un concerto gratuito dei Pink Floyd, pardon, che dico, Lady Gaga o chi per lei. Qualcuno, dopo aver loro magari mentito per tutta la settimana (per non farli preoccupare, si capisce), si è portato appresso i genitori. Per dimostrare come la situazione sia tranquilla e come sono bravi ed educati.
E in effetti lo sono. Non urlano, non spaccano vetrine, non insultano i passanti e nemmeno la polizia (che a sua volta se ne sta tranquilla, palesemente disarmata, senza caschi e bastoni, dopo aver capito di averla fatta grossa, domenica scorsa, quando si è messa a sparare lacrimogeni all’impazzata, senza alcuna ragione né necessita). Qualcuno, l’ho visto con i miei occhi, ha una busta di plastica in mano. Ogni tanto si china, raccoglie quel poco che c’è in giro, e lo ficca dentro. Neanche i boy scout lo fanno più.
Fuori, quando si emerge dal “tubo” si rimane abbagliati. Hong Kong, con i suoi grattacieli a picco sul mare, abbaglia sempre e comunque.
Ma stavolta ci sono anche le persone, le idee, i principi, a colorare la notte. Sul palco salgono tutti. I “vecchi” democratici, a malapena sopportati, mamme che si commuovono, professori e persino un ex poliziotto. Chiede scusa a nome dei suoi ex colleghi, e assicura: “Non vi preoccupate, ragazzi, ho ancora tanti amici là dentro e vi assicuro che anche se arrivasse l’ordine, non l’eseguirebbero. Non si spara sulla folla” Il lungo applauso lo ferma in tempo. Forse stava per citare Tien Anmen.
Chi non si tira indietro è Benny Lai, uno dei leader della protesta. Non le manda a dire, al suo governatore. “Di lui non ci fidiamo più. Ci ha mandato le triadi a picchiarci, ha perso ogni credibilità. Se dobbiamo trattate, trattiamo. Ma con chi ha il potere di decidere. Pechino, ci vedi?” “Era dal ’67, ai tempi della rivoluzione culturale – spiega un gentile signore, ingegnere in pensione, che si è offerto di farmi da interprete ma ha anche qualcosa da dire – che a Hong Kong non succedeva nulla del genere. Mai vista tanta gente in piazza.
Non sarà una rivoluzione, ma non è nemmeno uno scherzo. Qualcosa di grosso dovrà succedere, nei prossimi giorni. O forse ore”. Sagge parole. Già, cosa può succedere? Secondo il South China Morning Post, che segue con grande attenzione le proteste e ha addirittura predisposto un’applicazione gratuita grazie alla quale si può seguire in diretta ogni cosa che succede, 24 ore su 24, le opzioni sono ancora molte. Ma potrebbero, nel caso le due parti non accettassero il dialogo, ridursi ad una sola.
Per far ripartire il dialogo, gli studenti hanno posto due condizioni.
Che il governatore non vi partecipi direttamente (è già una concessione, visto che sino a ieri ne chiedevano le dimissioni), che la polizia non tenti di “liberare” le zone occupate con la forza, e che la stessa polizia ammetta le proprie colpe per aver attaccato senza motivo gli studenti e per non averli adeguatamente difesi dalle aggressioni dei “provocatori”.
Nulla di impossibile, parrebbe: condizioni molto “asiatiche”: prima le scuse, poi si discute. Dal canto loro gli studenti – ma non c’è un pieno accordo, perché manca ancora, e chissà se mai ci sarà, un coordinamento e una leadership riconosciuta – offrirebbero di ridurre le zone occupate, garantendo agli impiegati pubblici di tornare al lavoro e la riapertura delle scuole.
Una cosa è certa. Dopo aver dato l’impressione di cedere, i giovani di “Occupy” hanno ripreso l’iniziativa. E’ il governatore ora che si trova obbiettivamente in difficoltà. Sopratutto dopo che Pechino l’ha ufficialmente incaricato di risolver in fretta la faccenda. Sabato scorso, per la prima volta da quando è iniziata la protesta, il Quotidiano del Popolo ha condannato con un duro editoriale gli studenti, invitandoli a riporre in fretta “quello che sembra il sogno di un giorno ma che potrebbe trasformarsi nell’incubo di una vita” e dicendosi sicuro che la ferma leadrship del governatore Leung Chun Ying “saprà risolvere in fretta la questione”.
Ad avere fretta, in effetti, è proprio lui, il governatore. Sono quelli che hanno fretta, che si sentono in difficoltà, in genere, a porre gli ultimatum. “Noi no, non abbiamo fretta – mi dice Chung, 18 anni, studente di legge. Se restiamo uniti, non ce la faranno mai a farci sloggiare. Nessuno oggi, nemmeno la Cina può ordinare un massacro. E poi questa non è una rivoluzione….”
Alle tre di notte, quando chiudo questo articolo, ad Admiralty ci sono ancora migliaia di persone. Altre centinaia che dormono davanti alla residenza del governatore. E molti altri che si chiedono se domani, dopodomani, tra un mese saranno ancora lì.
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