Rojava e le armi della libertà femminile

by redazione | 16 Ottobre 2014 12:15

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Una foto che cir­cola da qual­che giorno, nella quale un sol­da­to­dello Stato isla­mico, sor­ri­dendo, tiene per i capelli la testa moz­zata di una com­bat­tente curda, aiuta forse a capire per­ché una delle donne delle Ypj dichiari in un’intervista che l’Isis è nemico dell’umanità. Per lei e le sue com­pa­gne Kobane è il con­fine glo­bale tra la civiltà e la bar­ba­rie. Eppure que­ste parole sono spiaz­zanti per­ché, soprat­tutto dopo l’11/9 (l’attacco alla Torri gemelle a New York, n.d.r.), sono ser­vite a giu­sti­fi­care una guerra com­bat­tuta senza fron­tiere in nome della «dura­tura libertà» dell’Occidente minac­ciato dal ter­ro­ri­smo glo­bale. Ma è spiaz­zante anche il cam­bia­mento di pro­spet­tiva che impon­gono il con­te­sto e la posi­zione di chi parla: se andiamo dalle stanze blin­date del Pen­ta­gono alla Rojava non abbiamo più davanti un mani­polo di uomini che pre­tende di gui­dare una guerra giu­sta per la libertà – anche quella delle donne oppresse dall’integralismo tale­bano –, ma donne pro­tette solo dalle pro­prie armi che com­bat­tono per libe­rare se stesse. Que­sto però non basta a quie­tare lo spiaz­za­mento. È suf­fi­ciente che sia una donna a pro­nun­ciare quelle parole per rove­sciare un discorso che ha vei­co­lato gerar­chie e oppres­sione? Il fatto che siano le donne a imbrac­ciare le armi è suf­fi­ciente a farci rinun­ciare al paci­fi­smo che abbiamo soste­nuto di fronte all’invasione sta­tu­ni­tense dell’Afghanistan?

SCHIAVE DI UN ORDINE PATRARCALE

Sedi­ci­mila donne che com­bat­tono con­trad­di­cono pra­ti­ca­mente ogni legame sostan­ziale tra il sesso, la guerra o la pace. Ogni giorno nuove com­bat­tenti si uni­scono alle Ypj. Un deto­na­tore per que­sti reclu­ta­menti è stata la presa del Sin­jar da parte dell’Isis ad ago­sto. Migliaia di donne curde yezidi sono state uccise, stu­prate, ridotte in schia­vitù e ven­dute a com­bat­tenti ed emiri per sod­di­sfare le loro esi­genze ses­suali e la neces­sità di pro­durre e alle­vare mar­tiri jiha­di­sti. Nell’odio sfre­nato dell’Isis per le donne c’è la volontà di ridurle a stru­menti di ripro­du­zione di un ordine vio­len­te­mente patriar­cale secondo una logica che, se pure estre­miz­zata e con­no­tata con­fes­sio­nal­mente, ha un carat­tere glo­bale.
A Kobane si sta per­ciò com­bat­tendo una «guerra di posi­zione» e que­sto non ha a che fare con le stra­te­gie mili­tari. In gioco c’è anche il posto che le donne occu­pano nel mondo e per que­sto le guer­riere delle Ypj sono orgo­gliose di avere preso le armi. Una com­bat­tente rac­conta: «la nostra società guar­dava le donne solo come buone casa­lin­ghe. Ora siamo cam­biate: viviamo, impa­riamo e com­bat­tiamo. Siamo sol­dati ora, viviamo pie­na­mente la nostra diver­sità». Le donne com­bat­tenti di Kobane sono diverse da ciò che sono state. Le armi hanno segnato un cam­bia­mento deci­sivo rispetto alla tra­di­zione. Que­sto cam­bia­mento è dovuto anche alla spinta poli­tica del Pkk ma, al di là dell’identificazione con la causa curda, c’è qual­cosa di più. Una di loro rac­conta che, secondo alcuni, le com­bat­tenti «sono tagliate fuori dalla vita sociale» per­ché hanno preso le armi. In gioco è anche una bat­ta­glia sul fronte interno per affer­mare il loro diritto a con­qui­starsi la libertà.
È stata la par­te­ci­pa­zione alla guerra a farle sen­tire uguali. Con­tro l’incredulità dei loro padri e dei loro fra­telli che dubi­ta­vano della loro forza, ben oltre il for­male rico­no­sci­mento della loro ugua­glianza espresso nella «Carta del con­tratto sociale» della Rojava, que­ste donne hanno dimo­strato di avere non solo la forza, ma anche il corag­gio. A loro non piace la guerra e lo ripe­tono nelle loro inter­vi­ste. Hanno com­bat­tuto prima di tutto con­tro una parte di sé, con­tro la pro­pria «pas­si­vità», come la chiama qual­cuna, per andare sul fronte di Kobane. Con­vinte che la guerra non sia pro­pria delle donne, alcune potreb­bero negare che que­ste donne siano dav­vero tali. È già acca­duto nel caso di Lynn­die, la tor­tu­ra­trice di Abu Gra­hib. Tra lei e le com­bat­tenti della Rojava c’è un abisso, ma in entrambi i casi è chiaro che vi sono molti modi di stare al mondo come donne, al di là del destino trac­ciato dall’ordine sim­bo­lico del padre o da quello della madre. Con­vinte che l’uguaglianza sia l’espressionepoli­ti­cally cor­rect del per­pe­tuarsi del potere ses­suale sulle donne, alcune potreb­bero vedere in que­ste guer­riere la ripro­du­zione di un «modello maschile» di auto­no­mia. Ma nell’uguaglianza fem­mi­nile c’è qual­cosa di più. Sono il volto e il corpo di que­ste com­bat­tenti a ter­ro­riz­zare i sol­dati dello Stato isla­mico, con­vinti che, se saranno uccisi da una donna, non andranno in paradiso.

UNA VUL­NE­RA­BI­LITÀ UNIVERSALE

Le donne delle Ypj pon­gono domande sco­mode al di qua di Kobane e forse que­sto spiega il silen­zio di molte donne e di mili­tanti e teo­ri­che fem­mi­ni­ste di fronte a que­sta guerra. Forse è più facile schie­rarsi quando le donne sono vit­time, quando il loro corpo è un campo di bat­ta­glia, quando si fanno amba­scia­trici di pace, quando sono uno fra i molti generi che subi­scono la discri­mi­na­zione fon­da­men­ta­li­stica, quando sono la meta­fora di una vul­ne­ra­bi­lità che uni­sce il genere umano e rivela le pre­tese di domi­nio del sog­getto «Maschio, Bianco e Occi­den­tale», quando sono eso­tici sog­getti post-coloniali. Forse è più dif­fi­cile schie­rarsi quando signi­fica ammet­tere che le stesse che danno la vita pos­sono toglierla a colpi di mor­taio, che le stesse che incar­nano la pace pos­sono armarsi, che le stesse che curano pos­sono col­pire, che le stesse che dovreb­bero con­te­stare il potere lot­tano per pren­dere potere.Forse non è la sto­ria di que­ste donne a essere ina­de­guata rispetto alle alte vette della libertà fem­mi­nile. Forse sono i discorsi che donne e fem­mi­ni­ste hanno a dispo­si­zione che non sono all’altezza della sto­ria delle com­bat­tenti di Kobane. Men­tre ridono e spa­rano, men­tre ripo­sano e dan­zano, que­ste donne indi­cano il punto in cui quei discorsi rischiano di sbri­cio­larsi sul fronte delle contraddizioni.Per que­sto, piut­to­sto che trin­ce­rarsi nel silen­zio, vale la pena ascol­tare e pro­vare a capire la posta in gioco glo­bale della guerra delle donne di Kobane.

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