by redazione | 1 Ottobre 2014 9:15
ROMA . Lo scontro sul Jobs Act continua al Senato. Almeno per il momento. La riunione dei 30 senatori dissidenti, ovvero i firmatari di 7 emendamenti che correggono profondamente la riforma del lavoro renziana, è servita ieri a mostrare la tenuta della minoranza. «Siamo tutti d’accordo sul principio di autonomia dei parlamentari quando si parla di un tema centrale come il lavoro», racconta il bersaniano Miguel Gotor. Come dire, il voto della direzione a favore del premier, un voto schiacciante, a Palazzo Madama vale fino a un certo punto. I senatori sono liberi e rispondono principalmente al mandato elettorale. Che non prevede la cancellazione dell’articolo 18.
Però la situazione è in movimento. Oggi arriverà il nuovo emendamento dell’esecutivo sulla riforma. Un emendamento che recepisce le aperture fatte da Renzi lunedì: con il reintegro previsto per motivi discriminatori e disciplinari, la fine dei co.co.pro, le risorse nella Finanziaria per gli ammortizzatori sociali universali. Da molti, anche fra i dissidenti, la mossa di Renzi viene considerata «un passo avanti». Quindi il nuovo testo potrebbe cambiare gli equilibri nell’area del dissenso e creare altre fratture tra gli oppositori. Ossia indebolire ancora quel fronte.
Di questo Renzi è sicuro. «I dissidenti perdono pezzi anche al Senato. La riforma passerà, i voti contrari non saranno più di 7, al massimo 8. Meno perfino di quelli della riforma costituzionale », spiega ai suoi collaboratori dopo una serie di contatti con Palazzo Madama. Voti che possono mancare in singole occasioni, magari compensanti da un aiuto di Forza Italia. «Ma al momento del voto finale rientreranno anche quelli e il Jobs Act lo approveremo con la nostra maggioranza », annuncia sicuro il premier. «È normale che adesso la riforma la facciamo comunque, anzi, a maggior ragione – dice Renzi a Ballarò -. Abbiamo votato, ora la riforma del lavoro è questione di giorni, non è più di anni come in passato. Ma la cosa che a me più colpisce sono quelli che dicono che non dobbiamo fare niente. Perdono una grande occasione ».
Gli interventi di profonda critica venuti da Massimo D’Alema e Pier Luigi Bersani non hanno seminato nuovi dubbi nel Pd. O non ancora. D’Alema è volato a Bruxelles per la fondazione dei socialisti europei. Bersani ha evitato dichiarazioni pubbliche. Alla Camera si sono visti Stefano Fassina, Pippo Civati e Gianni Cuperlo. Per fare il punto. E per trovare una propria autonomia dai big intervenuti in direzione. Se c’è una battaglia da fare contro Renzi, vorrebbero condurla senza l’ipoteca degli ex segretari. «Ci aspettiamo tra i 20 e i 25 senatori disposti a votare gli emendamenti anche nel caso venga chiesto il loro ritiro», dice Fassina. Ma è un dato molto teorico. Conteranno le correzioni del governo, il clima generale. E l’esito di Palazzo Madama condizionerà anche il voto successivo alla Camera. Dove i dissensi sono molto lontani dai numeri del congresso che vedevano almeno 150 deputati schierati contro il premier.
Perciò Renzi sembra già cantare vittoria. «La Cgil scende in piazza? Non sono preoccupato, e’ legittimo che scenda in piazza. Se ho capito bene il 25 ottobre quando noi saremo a fare la Leopolda. Ci hanno anche risolto il problema di chi ci fa la manifestazione contro», ironizza nell’intervista a Ballarò. «Ho grande rispetto per tutti i sindacati, pero’ dov’erano in questi anni in cui i diritti dei ragazzi venivano cancellati? Non c’erano. Tornano in piazza ora? Bene! Viva! Che bello! Io nel frattempo non mollo e continuo a cercare di cambiare un Paese che ha bisogno di avere forse un po’ meno discorsi astratti e un po’ piu’ proposte concrete».
Dopo il voto della direzione, il tentativo di Renzi è quello di isolare D’Alema e Bersani. «D’Alema, se non ci fosse bisognerebbe inventarlo. Tutte le volte che parla recupero un punto nei sondaggi – ripete il premier -. Grande stima e rispetto per D’Alema però per piacere evitiamo di continuare con le polemiche e con le assurdità. Con Berlusconi abbiamo fatto un patto per la legge elettorale e per la riforma della Costituzione perchè le riforme si scrivono tutti insieme. Poi stiamo governando noi che, con tutti i nostri limiti, siamo un partito che sta cercando di cambiare l’Italia e di fare quelle cose che in 20 anni non sono state fatte». Parole di sfida. Seguite da una nuova stoccata: «Se quando al governo c’era D’Alema avessimo fatto la riforma del lavoro come hanno fatto in Germania o nel Regno Unito non saremmo ora a fare questa discussione».
La minoranza cercherà ora una saldatura tra il Jobs Act e la legge di stabilità. Per schiacciare ancora una volta il governo Renzi a destra e liberare il campo della sinistra. È un’operazione che il premier ha capito e prova ad arginare. Non solo a parole. Per questo rilancia l’ipotesi di infilare il Tfr in busta paga: «Anzichè tenere i soldi da parte alla fine del lavoro te li do tutti i mesi. Significa che, per uno che guadagna 1.300 euro, un altro centinaio di euro al mese che uniti agli 80 euro inizia a fare una bella dote».
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