Mid-term, salvate il soldato Obama le star e i giovani l’ultima speranza

by redazione | 6 Ottobre 2014 10:01

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NEW YORK. ALLA fine potrebbe essere Eva Longoria a decidere la sorte di Barack Obama. La “casalinga disperata” è l’ultima arma segreta rimasta ai democratici. Fra 30 giorni si vota alle legislative di mid-term, oltre che per diversi governatori degli Stati Usa. Il partito di Obama deve tentare in extremis di scongiurare un disastro elettorale: potrebbe perdere anche il controllo del Senato, oltre alla Camera che è già in mano ai repubblicani dal 2010. «Eva la nuova star della politica», l’ha battezzata El Nuevo Dia che è il quotidiano più letto fra gli ispanici negli Stati Uniti. «Eva Longoria vuole vincere le legislative», rincara The Daily Beast. La star di Desperate Housewives da tempo è molto più che una celebrità e un sex-symbol. Come Oprah Winfrey per gli afroamericani, Longoria è diventata una opinion maker , grazie alle sue attività filantropiche ed alla sua militanza per i diritti degli immigrati.
Ora è mobilitata nei comizi elettorali, e davvero può spostare voti decisivi a favore dei democratici. Il risultato di novembre infatti può dipendere in modo determinante dall’affluenza alle urne. Tradizionalmente le legislative appassionano poco, molto meno dell’elezione presidenziale. Proprio quelle categorie che furono decisive nelle due vittorie di Obama — donne, giovani, neri, ispanici — rischiano di disertare in massa l’appuntamento di novembre. Longoria può fare la differenza, lo sa e non si risparmia.
La macchina del partito democratico le sta provando tutte in quest’ultimo sforzo per scongiurare il disastro. L’ultima trovata è una serie di spot satirici contro i candidati repubblicani più guerrafondai, sessisti, negazionisti del cambiamento climatico, che vanno in onda sulle tv e i social media più frequentati dai giovani: Comedy Central, YouTube, Facebook, la radio Pandora. Perfino Michelle Obama, sempre riluttante a esporsi troppo nella mischia politica, ha accettato di partecipare ad alcuni comizi in favore di candidati democratici traballanti. Suo marito è in serie difficoltà nei sondaggi, ma Michelle continua a godere di una forte popolarità. Può richiamare donne e afroamericani, perché non stiano a casa il 4 novembre. Su questa differenza di appeal tra i due coniugi ha scherzato il presidente, parlando venerdì alla Northwestern University nell’Illinois: «Sulle schede di novembre non c’è il mio nome. E Michelle ne è ben contenta». Lo sono anche tanti suoi colleghi di partito… Eppure lui sa che il resto della sua presidenza può essere condizionato, o addirittura irrimediabilmente compromesso, da questo risultato. L’ultimo biennio del suo secondo mandato è “appeso” a quel che accadrà in sei Stati dove sono in bilico i seggi dei senatori: Kansas, Colorado, Iowa, Alaska, Louisiana, Arkansas. Gli ultimi tre di questa lista, secondo i sondaggi più recenti starebbero scivolando a favore dei candidati repubblicani. La potenza del denaro è dalla loro parte. I cosiddetti Super- Pac (abbreviazione di Political Action Committee), contenitori di finanziamenti per le campagne elettorali, hanno raccolto 113 milioni per sostenere politici di destra, contro 77 milioni per i democratici. Oltre ai tradizionali potentati della destra economica come i fratelli Koch (quarta fortuna d’America, legati al petrolchimico, nemici giurati di Obama e degli ambientalisti), è sceso in campo anche un magnate hi-tech della Silicon Valley, Larry Ellison di Oracle, per finanziare i repubblicani.
L’ultimo biennio di Obama alla Casa Bianca ha una serie di riforme incompiute, sulle quali il presidente spera ancora di sfondare e di lasciare al paese un’eredità positiva. Nell’ordine: aumento del salario minimo obbligatorio; riforma dell’immigrazione per accelerare l’integrazione dei giovani irregolari; lotta all’elusione fiscale delle multinazionali; nuovi limiti alle emissioni di CO2. Tutti questi obiettivi saranno irraggiungibili se il Congresso passa alla destra. Con Camera e Senato nelle loro mani, i repubblicani potrebbero tentare uno sfondamento strategico. Cancellare la riforma sanitaria di Obama, per esempio. O addirittura tentare l’impeachment del presidente, trovando il pretesto giusto (ci arrivarono vicinissimi con Bill Clinton).
Vista dal resto del mondo questa campagna elettorale americana è difficilmente comprensibile. Un osservatore europeo, latinoamericano o asiatico, forse boccerebbe Obama in politica estera: ma non è questo il tema che conta davvero nel voto americano. In compenso qualsiasi governante d’Europa invidia a Obama la sua performance economica: cinque anni di ripresa, un tasso di disoccupazione dimezzato al 5,9%, le Borse alle stelle. Perfino il Brasile in recessione, la Cina con una crescita che rallenta, guardano l’economia Usa come una locomotiva. Ma la percezione qui è diversa. La “ripresa di Obama” è reale ma squilibrata, segnata dalle stesse diseguaglianze che affliggono l’America da trent’anni.
Dalla fine della recessione (2009), l’1% degli americani più privilegiati si è accaparrato il 95% della nuova ricchezza creata. Le maggiori società quotate a Wall Street, quelle che compaiono nel listino Standard & Poor’s 500, siedono su una montagna di cash senza precedenti: 3.600 miliardi di dollari di liquidità. In compenso il reddito della famiglia media è fermo agli stessi livelli del 1999. In questa fascia media, dove c’è la maggioranza degli elettori di Obama, la ripresa è deludente. Il sentimento di questi elettori è catturato a perfezione in una battuta ormai celebre dell’esperto democratico di sondaggi, Peter Hart: «Il governo continua a dirmi che il livello dell’acqua nella mia cantina è sceso di un terzo, ma io continuo ad avere la cantina allagata».

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