Merkel incalza lo Zar (in russo) Lunga partita al tavolo dei sospetti
Di prima mattina, al tavolo con i leader europei e al cospetto di un Vladimir Putin in gran forma nonostante abbia fatto le tre di notte in compagnia di Silvio Berlusconi, Angela Merkel suona la sveglia per tutti. Comincia in inglese sventolando un foglietto pieno di notazioni, poi si rivolge direttamente a Putin, in russo. «Quando ti deciderai ad applicare questo accordo? Devi smettere di appoggiare i separatisti in Ucraina…». «Un momento, un momento», interviene il premier Matteo Renzi, «finché si parla in inglese d’accordo, ma con il russo proprio non ce la posso fare». La tensione si scioglie: la cancelliera è la prima a sorridere.
Assenti gli americani Putin pensava di poter padroneggiare la dinamica del vertice di Milano. O meglio si era preparato «all’ostilità» del britannico David Cameron. Contava, invece, sull’aperturismo di Matteo Renzi, il padrone di casa, e sulla scarsa incisività del presidente francese François Hollande, oltreché dei vertici della Ue.
I calcoli del numero uno del Cremlino si sono rivelati quasi esatti. Nella riunione in Prefettura, Cameron è stato diretto, incalzante, scorbutico. Putin ha incassato impassibile, e subito dopo ha incaricato il suo portavoce, Dmitry Peskov, di regolare i conti, diffondendo una nota in cui si accennava a «certi partecipanti che hanno tenuto un atteggiamento assolutamente prevenuto, non flessibile, non diplomatico». Al tavolo Herman Van Rompuy, presidente del Consiglio europeo, e José Manuel Durão Barroso, entrambi in uscita, non hanno pronunciato parola. Due gatti di marmo. Van Rompuy, però, davanti ai giornalisti si è lanciato in un triplice e stupefacente «implementation, implementation, implementation», invitando la Russia a «implementare», cioè ad applicare fino in fondo l’accordo sul cessate il fuoco, il cosiddetto «protocollo di Minsk».
Renzi ha provato a inserirsi, spalleggiato il primo giorno dal presidente Giorgio Napolitano. Il premier italiano ha cercato di lusingare Putin, dicendo che «non si può prescindere dalla Russia» per affrontare le emergenze mondiali. Ma fin dalle prime battute si è capito come erano distribuite le carte del peso politico. Rapidamente Angela Merkel si è impadronita del confronto, citando a memoria gli articoli dei precedenti accordi, dimostrando di conoscere a fondo la materia. A quel punto Putin ha cominciato, lentamente, ad arretrare. Prima ha chiarito che Mosca vuole rispettare «l’integrità territoriale dell’Ucraina», poi ha detto di «non sapere se nel Donbass combattano anche dei russi» e, in ogni caso, lui non sarebbe in grado «di controllarli».
All’ora di pranzo sembrava finita lì. Il presidente ucraino Petro Poroshenko andava ripetendo che Putin non aveva alcun interesse a risolvere davvero la crisi. I leader decidono di proseguire comunque, spezzando la discussione e affidandola ai ministri degli Esteri. Un gruppo più ristretto si sarebbe dovuto occupare delle elezioni locali da tenere a Donetsk e Luhansk. L’altro, coordinato dall’Italia, del controllo del fronte utilizzando i droni.
Ma ancora una volta la cancelliera tedesca, assolutamente indifferente alle regole della diplomazia, forza la mano, riproponendo il «quadrangolare» già sperimentato a giugno in Normandia: Merkel, Hollande, Putin e Poroshenko. Qui il confronto diventa pragmatico: si parla di gas, di contratti da rivedere.
Gli europei chiedono garanzie, Putin ondeggia, concede una mezza apertura che Poroshenko scambia per un vero accordo.
Alla fine tutti capiscono che la soluzione della crisi non è matura. Certo non c’è stata la rissa: nessuno ha pronunciato la parola «sanzioni», né per minacciare, né per recriminare. Putin lascia Milano («una bella città») impegnandosi a rispettare l’intesa di Minsk firmata il 5 settembre scorso. Aveva fatto la stessa cosa il 17 aprile, partendo da Ginevra dopo aver siglato un testo simile.
Giuseppe Sarcina
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