L’insegnamento di Beccaria, passato e futuro del garantismo

by redazione | 28 Ottobre 2014 7:45

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«Il più sicuro ma più dif­fi­cile mezzo di pre­ve­nire i delitti è l’educazione». Sono tra­scorsi 250 anni da quando Cesare Bec­ca­ria pub­blicò «Dei delitti e delle pene». Suona rivo­lu­zio­na­ria oggi, nel pieno di ondate popu­li­sti­che, un’affermazione così nitida nell’affidare all’educazione la pre­ven­zione cri­mi­nale. La repres­sione dei cri­mini negli scorsi 250 anni si è invece ancora pre­va­len­te­mente rivolta al diritto penale.

«Ogni pena che non derivi dall’assoluta neces­sità è tiran­nica», scri­veva Bec­ca­ria evo­cando Mon­te­squieu. Il nostro è dun­que un sistema giu­ri­dico tiran­nico che ha tra­sfor­mato il diritto penale in qual­cosa di ben diverso rispetto a quello che dovrebbe più umil­mente rappresentare.

È un diritto che con­tiene tracce di Stato etico, che giu­dica gli stili di vita delle per­sone e non i fatti da loro com­messi, che ha pro­gres­si­va­mente dismesso il prin­ci­pio di offensività.

La pro­spet­tiva edu­ca­tiva si è ritratta di fronte all’invadenza del diritto penale.

Tanti pur­troppo sono gli esempi di una legi­sla­zione e di una pra­tica penale del tutto indif­fe­renti agli inse­gna­menti di Cesare Bec­ca­ria. Non vi è trac­cia «dell’assoluta neces­sità» di cui scri­veva Bec­ca­ria nel lon­tano 1764 in tutti quei delitti di crea­zione arti­fi­ciosa pre­senti nella nostra legi­sla­zione iper­tro­fica e uma­na­mente non cono­sci­bile, in tutti quei regimi peni­ten­ziari che si affi­dano alla durezza dei trat­ta­menti, in un sistema san­zio­na­to­rio che si è affi­dato quasi in via esclu­siva al car­cere per punire e rieducare.

Non v’è seguito di quell’insegnamento nem­meno nella fase che pre­cede la con­danna, eppure, come scri­veva Bec­ca­ria, «la pri­va­zione della libertà, essendo una pena, non può pre­ce­dere la sen­tenza se non quando la neces­sità lo imponga». Un’altra rifles­sione di estrema attua­lità, se con­si­de­riamo che oggi, pro­prio per la durata dei pro­cessi e per l’impiego mas­sic­cio della custo­dia cau­te­lare, il momento della pena tende, di fatto, a coin­ci­dere con il tempo lungo del pro­cesso (la vera pena è, spesso, il processo!).

Il garantismo in Ita­lia ha un pas­sato nobile che affonda le radici nell’illuminismo giuridico.

La dignità umana e la libertà costi­tui­scono la soglia non supe­ra­bile da parte di chi ha il potere.

La nostra codi­fi­ca­zione penale non è riu­scita a sol­care degna­mente il sen­tiero illu­mi­ni­sta. È stata vit­tima del rea­li­smo poli­tico, delle tra­ge­die tota­li­ta­rie, della dema­go­gia securitaria.

Non è un caso che a 84 anni dalla appro­va­zione del codice Rocco in piena era fasci­sta non si è aperta ancora una vera e pro­pria discus­sione poli­tica e par­la­men­tare per un nuovo codice penale che riduca i delitti e risi­stemi le pene.

C’è dun­que un futuro per il garantismo penale? È solo con­si­stente nel non far eva­po­rare gli inse­gna­menti di Bec­ca­ria? Come pos­siamo tra­durre nella post-modernità quelle domande sul per­ché, chi e come punire che hanno finora tro­vato rispo­ste banali e ripe­ti­tive su scala globale?

Di pas­sato e futuro del garantismo si discu­terà il 29 e 30 di otto­bre alla Uni­ver­sità Roma Tre (Dipar­ti­mento di Giu­ri­spru­denza) in occa­sione dei 250 anni dalla pub­bli­ca­zione di «Dei delitti e delle pene».

Di fronte all’ansia poli­tica che vuole ras­si­cu­rare sim­bo­li­ca­mente l’opinione pub­blica attra­verso nuovi delitti e nuove pene va ria­perto un dibat­tito intorno ai limiti del potere di punire.

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