L’economia politica della promessa

L’economia politica della promessa

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Tra la poli­tica e la pro­messa vi è un rap­porto di imme­diata con­ti­guità quando non di pura e sem­plice sovrap­po­si­zione. Un pro­gramma poli­tico, nel cre­pu­scolo della rap­pre­sen­tanza e nella sta­gione del lea­de­ri­smo ram­pante, non è in fondo altro che una sequenza di pro­messe dispo­ste lungo un per­corso che dovrebbe con­durre alla loro rea­liz­za­zione. Ma se ci spo­stiamo sul ter­reno dell’economia, man­te­nen­doci fedeli ai suoi prin­cipi, è un’altra dimen­sione a occu­pare il cen­tro della scena: quella della scom­messa, della pre­vi­sione sul futuro. Un’attesa di gua­da­gno, di espan­sione, di cre­scita che com­porta però una buona dose di azzardo. Un rischio che cor­ri­sponde a un valore. Quanto mag­giore è il rischio tanto mag­giore sarà il gua­da­gno se le cose doves­sero andare per il verso giu­sto. È in rife­ri­mento a que­sta dimen­sione, svi­lup­pata oltre­mi­sura dal capi­ta­li­smo finan­zia­rio, che è stata coniata l’espressione capitalismo-casinò.
Anche se, con­tra­ria­mente a quanto accade nelle case da gioco, a pagare la «mala­sorte» e ad accu­mu­lare i gua­da­gni rara­mente saranno le stesse per­sone. Tut­ta­via, quando la scom­messa eco­no­mica viene spesa sul mer­cato poli­tico pre­fi­gu­rando la ricon­qui­sta della «com­pe­ti­ti­vità» e del benes­sere, il rilan­cio dell’occupazione, dei con­sumi e dei red­diti, si ritorna per via diretta al lin­guag­gio della pro­messa. Le incer­tezze dell’azzardo scom­pa­iono d’incanto per lasciar posto alla ras­si­cu­rante sicu­mera della poli­tica, imper­mea­bile a qual­si­vo­glia indi­ca­tore nega­tivo. L’ottimismo è un dovere patriot­tico anche se non sem­pre con­di­viso dai mer­cati. Come che sia, in poli­tica così come in eco­no­mia, la pro­messa agi­sce da fat­tore pro­dut­tivo di con­sensi, di inve­sti­menti o di entrambi. La ven­dita del futuro rende denaro immediato.

OLTRE LA SER­VITÙ VOLONTARIA

Quello che ora ci inte­ressa esa­mi­nare è come la pro­messa, o la scom­messa masche­rata da pro­messa, ven­gano spese oggi sul mer­cato del lavoro. Tanto mas­sic­cia­mente da con­fi­gu­rare una vera e pro­pria «eco­no­mia poli­tica della pro­messa». Chia­riamo subito il punto cen­trale: la pro­messa è il sala­rio del lavoro gra­tuito. E il lavoro gra­tuito, o semi­gra­tuito, è oggi una forza pro­dut­tiva irri­nun­cia­bile nel pro­cesso di valo­riz­za­zione, nell’incremento dei pro­fitti e delle ren­dite. Non­ché, più in gene­rale, nella pro­du­zione di ric­chezza eco­no­mica ed extrae­co­no­mica nelle società avan­zate. È que­sto appa­rente rap­porto di «scam­bio» che distin­gue net­ta­mente il lavoro gra­tuito con­tem­po­ra­neo da qual­siasi forma di «ser­vitù volon­ta­ria». Si tratta di una mac­china pro­dut­tiva com­plessa, un’articolazione di fat­tori mate­riali e imma­te­riali, ideo­lo­gici e orga­niz­za­tivi di diversa natura. Una realtà che con­verrà esa­mi­nare nelle sue diverse com­po­nenti per com­pren­derne la potenza e la per­va­si­vità.
Una prima grande par­ti­zione è quella tra il lavoro gra­tuito con­sa­pe­vole e quello incon­sa­pe­vole. Tra quando sap­piamo di essere messi al lavoro e quando pro­du­ciamo per altri dedi­can­doci alle nostre usuali atti­vità sociali, rela­zio­nali e per­fino ricrea­tive: inter­ve­nendo in un «social net­work», immet­tendo idee e infor­ma­zioni nella Rete o esco­gi­tando schemi e forme di inte­rat­ti­vità sociale. Ovvero, su un piano più diret­ta­mente mate­riale, quando tra­spor­tiamo e mon­tiamo un mobile Ikea for­nendo gra­tui­ta­mente alla mul­ti­na­zio­nale scan­di­nava logi­stica e lavoro ope­raio. È, insomma, la «vita messa al lavoro», la coo­pe­ra­zione sociale espro­priata di cui molto si è scritto e su cui qui non tor­ne­remo.
Il lavoro gra­tuito con­sa­pe­vole, che è l’oggetto spe­ci­fico della nostra inda­gine, può essere otte­nuto per diverse vie. La prima è quella della coa­zione, la seconda quella della pro­messa. Entrambe sono sot­to­po­ste, in mag­giore o minore misura, alla dimen­sione del ricatto. La coa­zione può essere eser­ci­tata in diverse forme, tutte, senza ecce­zione, in forte incre­mento. La prima si può rias­su­mere nel pas­sag­gio dalWel­fare al cosìd­detto Work­fare. I disoc­cu­pati di lungo corso, per­cet­tori dei sus­sidi, ven­gono sostan­zial­mente costretti, pena la ridu­zione o per­dita dell’assegno, ad accet­tare un lavoro a sala­rio zero, o quasi zero, indi­pen­den­te­mente dalle loro qua­li­fi­che e dispo­si­zioni e dalle con­di­zioni, il più delle volte pes­sime, del lavoro «offerto». È la via imboc­cata con deci­sione, per esem­pio, dal governo tede­sco che pure qual­che risorsa rede­stri­bu­tiva la mette in gioco. Va da sè che que­sto lavoro coatto a costo quasi zero, aldilà dalle moti­va­zioni ideo­lo­gi­che che lo amman­tano, ser­virà a sosti­tuire un equi­va­lente volume di lavoro retri­buito con il risul­tato di otte­nere al prezzo di un mode­sto sus­si­dio la pro­dut­ti­vità di una forza lavoro che altri­menti risul­te­rebbe assai più costosa. Si tratta, insomma, di un incre­mento smi­su­rato del tasso di sfrut­ta­mento. A que­sto si aggiun­gono le ricor­renti pro­po­ste di restau­ra­zione del ser­vi­zio civile obbli­ga­to­rio con tutta la reto­rica pseu­do­so­li­da­ri­stica ed edu­ca­tiva che le accom­pa­gna. Non si tratta, in sostanza, che della ripro­po­si­zione moderna dell’antico isti­tuto della cor­vée.
Vi è poi lo ster­mi­nato ter­ri­to­rio della «for­ma­zione» che sem­pre più mas­sic­cia­mente include la costri­zione al lavoro. Sono in con­ti­nua espan­sione i tiro­cini obbli­ga­tori e gli sta­ges pre­vi­sti dai corsi di studi e dai più diversi per­corsi for­ma­tivi che, ben lungi dall’assicurare l’accesso al lavoro retri­buito, costi­tui­scono un bacino in perenne rin­no­va­mento di lavoro gra­tuito rigo­ro­sa­mente subor­di­nato. E come tale le aziende se ne sono sem­pre ser­vite e con­ti­nuano a ser­vir­sene, dedite più che alla tra­smis­sione di capa­cità, all’abbattimento di costo delle man­sioni più ele­men­tari. In que­sto ambito la «pro­messa» for­ma­tiva fa da alea­to­rio con­torno alla realtà quo­ti­diana della coazione.

MEC­CA­NI­SMI DI RECLUTAMENTO

Veniamo, infine, all’economia della pro­messa vera e pro­pria che domina incon­tra­stata nei diversi ambiti del lavoro intel­let­tuale e delle sva­riate «inten­denze» che lo seguono. Non è un mistero che interi com­parti, come l’università, il gior­na­li­smo, l’editoria, la comu­ni­ca­zione chiu­de­reb­bero imme­dia­ta­mente i bat­tenti se non potes­sero fare ricorso a un enorme volume di lavoro gra­tuito o quasi gra­tuito. E altri com­parti, come quello della tutela e valo­riz­za­zione dei beni cul­tu­rali, stanno met­tendo a punto mec­ca­ni­smi di reclu­ta­mento di ope­ra­tori a sala­rio zero e magari con spese e assi­cu­ra­zioni a pro­prio carico in cam­bio dell’onore rice­vuto (vi è stata una pro­po­sta in que­sto senso del mini­stro Dario Fran­ce­schini, poi riti­rata).
Que­sta ero­ga­zione di lavoro è retri­buita con null’altro che con la pro­messa. Quest’ultima può essere sud­di­visa, sia pure un po’ sche­ma­ti­ca­mente, in pro­messa diretta e pro­messa indi­retta. La prima lascia intra­ve­dere al col­la­bo­ra­tore di lungo corso, in pre­mio alla sua dedi­zione e costanza, la remota pos­si­bi­lità di una qual­che con­trat­tua­liz­za­zione (quasi sem­pre a ter­mine). Alla fac­cia di tutta la reto­rica meri­to­cra­tica, e anzi sve­lan­done la vera natura, sarà chi resi­ste in «ser­vi­zio» un minuto di più dei suoi con­cor­renti a incas­sare la posta, quando e se mai ve ne sarà una in gioco. È stato que­sto il sistema asso­lu­ta­mente domi­nante nel mondo dell’università e in quello del gior­na­li­smo e dell’editoria. Tut­ta­via, di fronte al blocco gra­ni­tico del ricam­bio gene­ra­zio­nale e alla inces­sante ridu­zione delle risorse la pro­messa diretta ha pro­gres­si­va­mente perso di cre­di­bi­lità e di attrat­tiva. Soprav­vive, per­lo­più tra quanti sono stati tra­sfor­mati dall’eternità dell’attesa in veri e pro­pri «casi umani» più o meno dispe­rati.
La pro­messa indi­retta, invece, si gioca tutta intorno a una parola magica: la «visi­bi­lità». Fa dun­que leva su una delle paure più dif­fuse nelle società alta­mente indi­vi­dua­liz­zate e com­pe­ti­tive, quella dell’anonimato. Nel gior­na­li­smo, nell’editoria, nel mondo dello spet­ta­colo la com­parsa e la firma, elar­gite come una pre­zio­sis­sima ono­re­fi­cenza sono la con­sueta con­tro­par­tita del lavoro gra­tuito. Farsi cono­scere, esi­birsi, pub­bli­care, costi­tui­scono la pro­messa di future occa­sioni e un cer­ti­fi­cato di esi­stenza in vita (sociale). Chi eser­cita il con­trollo su un qual­siasi luogo della «visi­bi­lità» può disporre di un bacino ine­sau­ri­bile di lavoro a costo zero dal quale trarre pro­fitto. Non è certo que­sta una novità, ma la dif­fe­renza con­si­ste nel fatto che que­sto bacino non rap­pre­senta ormai un «di più», un inve­sti­mento sul futuro, un mec­ca­ni­smo di sele­zione, un pas­sag­gio tran­si­to­rio, una risorsa mar­gi­nale, ma l’ingranaggio impre­scin­di­bile dell’intera mac­china pro­dut­tiva e lo stru­mento deci­sivo per abbat­tere i costi e ricat­tare il lavoro a vario titolo retri­buito, se non per sosti­tuirlo diret­ta­mente. Si sba­glie­rebbe, tut­ta­via, ad attri­buire que­sto biso­gno di visi­bi­lità ai soli gio­vani. Chiun­que, nell’instabilità gene­rale del lavoro, può essere costretto a rein­ven­tarsi e ripro­porsi in un ambito del tutto diverso da quello in cui aveva costruito il suo rico­no­sci­mento. A ricer­care, dun­que, nuova «visi­bi­lità» offrendo gra­tui­ta­mente le sue pre­sta­zioni.
Ma il lavoro gra­tuito, con­sa­pe­vole e volon­ta­rio, quello che sta al cen­tro dell’«economia poli­tica della pro­messa», non si limita a ven­ti­lare occa­sioni future, a isti­tuire «pro­fili» da ven­dere sul mer­cato. Risponde anche a un biso­gno più imme­diato, quello di poter dare rispo­sta alla domanda, sem­pre più imba­raz­zante e mole­sta: «di che cosa ti occupi?» L’aspetto di rime­dio iden­ti­ta­rio a una con­di­zione di sostan­ziale inde­ter­mi­na­tezza, di sra­di­ca­mento e di iso­la­mento non può essere sot­to­va­lu­tato. «Scrivo, per il gior­nale tal dei tali», «lavoro presso que­sta o quella cat­te­dra», «col­la­boro con una impor­tante casa edi­trice», sono tutte rispo­ste che com­pen­sano la fra­gi­lità della pro­pria con­di­zione, accre­scono l’autostima e lustrano l’immagine sociale. Non si tratta, tut­ta­via, del solo «pri­vi­le­gio» di esi­bire un ruolo impor­tante, di essersi con­qui­stati l’autorizzazione a «fare qual­cosa» di signi­fi­ca­tivo (o di rite­nuto tale), ma anche della simu­la­zione di appar­te­nenza a un orga­ni­smo o a una squa­dra. Vale per la testata che ti con­cede un euro al pezzo, così come per la cat­te­dra che ti con­sente di inter­ro­gare e giu­di­care gli stu­denti o per l’amministrazione pub­blica che ti chiama a orga­niz­zare un evento. Sei uno del gruppo e dun­que tenuto a difen­derne gli inte­ressi e le gerar­chie, senza alcun potere deci­sio­nale nem­meno sul tuo spe­ci­fico fram­mento di atti­vità. Il senso di appar­te­nenza can­cella ogni con­trad­di­zione, di con­flitto nean­che a par­larne, tra il lavo­ra­tore gra­tuito e i suoi capi retri­buiti. Quello che fa la dif­fe­renza tra la «gavetta» di un tempo e il lavoro gra­tuito con­tem­po­ra­neo è una que­stione di durata e di esten­sione che ne deter­mi­nano però la diversa qua­lità. L’attesa può pro­trarsi per una intera vita attiva e non ha più lo scopo di pre­pa­rare al lavoro retri­buito, ma quello di sosti­tuirlo (con­ver­reb­bero, fra l’altro, valu­tare anche gli effetti fiscali di que­sta sosti­tu­zione che di fatto com­porta una esten­sione del lavoro in nero o semi­nero, che la Ger­ma­nia ha par­zial­mente isti­tu­zio­na­liz­zato attra­verso il sistema dei mini­jobs). Il lavoro gra­tuito non è più ai mar­gini del sistema ma sal­da­mente inse­diato nel suo cen­tro. E con­tri­bui­sce in maniera deci­siva a deter­mi­nare la forma attuale della «piena occu­pa­zione», che com­prende una vasta area di «disretribuzione».

LA DOT­TRINA DELLA COMPETIVITÀ

Stando così le cose si potrebbe con­clu­dere che una mas­sic­cia asten­sione dal lavoro gra­tuito por­te­rebbe, se non al col­lasso del sistema, almeno alla crisi pro­fonda di molti suoi com­parti. Inol­tre, trat­tan­dosi di lavo­ra­tori che non per­ce­pi­scono alcun red­dito, o un red­dito pura­mente sim­bo­lico, essa non com­por­te­rebbe nes­suna con­se­guenza sulle loro con­di­zioni mate­riali di esi­stenza. Se il lavoro è a costo zero anche lo scio­pero lo è. L’economia poli­tica della pro­messa (cor­re­data dall’esibizione di qual­che car­riera esem­plare) è il dispo­si­tivo inca­ri­cato di impe­dire che si arrivi a un fronte del rifiuto nei con­fronti del lavoro non retri­buito. È la dot­trina della com­pe­ti­ti­vità con­si­de­rata dal punto di vista di quelli che la cer­ti­fi­cano e la gover­nano.
Le arti­co­la­zioni e le distin­zioni che abbiamo cer­cato di descri­vere, gli aspetti psi­co­lo­gici e iden­ti­tari, spie­gano per­ché il lavoro gra­tuito fati­chi a rico­no­scersi nei suoi tratti comuni e gene­rali, non­ché nel suo destino di grama per­ma­nenza. La pro­messa ha sem­pre un desti­na­ta­rio indi­vi­duale e l’intento di con­vin­cerlo che la sua è una «sto­ria del tutto spe­ciale». Tut­ta­via, il pro­trarsi della crisi, deter­mina una mol­ti­pli­ca­zione di espe­rienze indi­vi­duali che vanno tra­sfor­man­dosi in un patri­mo­nio col­let­tivo. I tratti comuni ven­gono sem­pre più in luce e comin­ciano a pren­der forma, soprat­tutto nella rete, ini­zia­tive e appelli che pren­dono di mira il lavoro gra­tuito e ne denun­ciano lo sfrut­ta­mento sem­pre più siste­ma­tico. A que­sto si aggiunge il fatto che le risorse com­pen­sa­to­rie della «disre­tri­bu­zione» di massa (risparmi, wel­fare fami­liare, pre­sta­zioni occa­sio­nali) si sono esau­rite o sono in via di esau­ri­mento. Que­sti fat­tori non si sono ancora tra­sfor­mati nell’esercizio di una forza con­sa­pe­vole, ma le con­di­zioni di uno scon­tro comin­ciano ad essere distin­ta­mente visibili



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