L’antico prezzo della colpa al FestivalStoria
Quando diciamo di «essere in debito», dovremmo cogliere in questa espressione un’eco che va al di là del suo significato corrente. Se intesa in tutta la sua pregnanza, essa non equivale a dire che «abbiamo un debito». A pensarci bene, un debito non si può «avere», come potremmo dire di un bene o di una qualità, dal momento che esprime precisamente una mancanza, qualcosa che appunto non è nostro e di cui perciò non siamo padroni, ma cui siamo piuttosto assoggettati o, con una formulazione più netta, di cui siamo prigionieri. «Essere in debito» va, insomma, inteso nel senso letterale di essere interni a qualcosa, a un dato orizzonte che non possiamo eccedere e che perciò ci sovrasta e ci tiene in pugno. Il titolo che ho dato a questo intervento – metafisica del debito – rimanda proprio a tale condizione chiusa, bloccata, intrascendibile. Qualcosa che non solo non siamo in grado di dominare, ma che sempre più ci domina al punto di espropriarci della nostra libertà.
«Essere in debito» significa che il debito è diventato il luogo che ci è destinato, la nostra dimensione abituale. Uno spazio nel quale non entriamo, perché in esso già siamo collocati, in cui addirittura nasciamo, a prescindere dalla nostra situazione individuale di povertà o di ricchezza. Anche chi non ha fatto mai debiti, risulta indebitato perché nasce in uno Stato che trasmette a tutti, prima ancora che siano nati, il proprio debito. Alcuni ricercatori hanno calcolato che in paesi simili al nostro chiunque venga al mondo è indebitato in media per trentamila euro, prima ancora di muovere i primi passi. A questo primo debito, che in termini filosofici potremmo chiamare «trascendentale», perché costitutivo della nostra esperienza, se ne aggiungono altri, successivi, destinati ai beni primari della casa, del cibo, della salute, dell’istruzione e infine del lavoro – che ormai anche si paga anticipatamente, come sa chiunque apra un’attività imprenditoriale o avvii una professione privata.
QUESTIONI DI VITA E DI MORTE
Certo, l’entità del debito muta a secondo dei contesti geografici, politici, sociali – della presenza o meno di protezioni da parte dello Stato. Ma comunque, non si sfugge alla sua presa: l’indebitamento è inevitabile. Se un emigrato arrivato fortunosamente sulle nostre coste passa diversi anni a pagare il debito contratto nei confronti di chi lo ha trasportato, sempre che non sia stato prima gettato in mare, uno studente americano medio destina i primi guadagni del proprio eventuale lavoro a restituire il debito con l’Università che ha anticipato il pagamento delle sue tasse.
Oggi gran parte degli interventi sanitari, soprattutto in caso di malattia grave, sono effettuati attraverso debito in una materia che spesso tocca direttamente questioni di vita e di morte. In questo senso si può ben dire che siamo tutti in debito, che il debito è diventato la nostra condizione naturale. È questa trasposizione di un dato storico in una dimensione naturale il carattere metafisico del debito. Esso è la catena che comunque ci stringe – sia che siamo in condizioni di pagarlo, sia che non lo siamo. Il debito viene prima della nostra vita – nel doppio senso che la precede e la determina. Ci tiene in vita e insieme ci espone alla minaccia di perderla, come dimostrano i tanti casi di suicidio registrati in questi anni. In termini metafisici, ma anche biopolitici, si può ben dire che il debito costituisca la nostra attuale forma di vita.
Come è stato possibile arrivare a tanto? E da quale condizione precedente venivamo? La responsabilità è dell’attuale crisi economica o essa non ha fatto che mettere allo scoperto una dinamica di più lungo periodo? E si tratta di una situazione momentanea oppure destinata ad assumere un carattere duraturo? Se ne può uscire o dobbiamo rassegnarci ad essa? Naturalmente non è facile rispondere a tali domande, soprattutto da parte di chi non è un economista. Ma da tempo anche gli economisti sono a corto di risposte. Quello che è possibile, per chi fa il mio mestiere, è allungare la prospettiva in termini storici o, ancor meglio, genealogici. Come si sa, il primo filosofo a procedere in tal modo è stato Nietzsche, allorché nel saggio sulla genealogia della morale ha individuato proprio nel debito la chiave d’ingresso nella scatola nera delle nostre convinzioni morali e del sentimento di colpa che le sottende. Al centro del suo discorso vi è la ricerca, appunto genealogica, dei dispositivi materiali che hanno plasmato la nostra soggettività, vale a dire il nostro modo di agire e di pensare in una modalità che si è riprodotta nel tempo, cancellando la memoria della sua origine. Diversamente da coloro che attribuiscono un ruolo naturale a valori apparentemente universali – quali quelli di dovere, responsabilità, colpa – Nietzsche li considera derivati da pratiche più originarie come appunto quelle che legano in un rapporto di ferreo assoggettamento creditori e debitori, vincitori e vinti.
TRA DOMINIO E SUBORDINAZIONE
Decisivi, nell’elaborazione di questa grande macchina di dominio cui siano ancora sottomessi, sono da un lato la dottrina cristiana e dall’altro il diritto romano arcaico e classico. Alla prima è riconducibile la connessione tra debito e colpa. Per la concezione cristiana, nel momento stesso in cui nasce, l’uomo entra in un debito infinito nei confronti di chi gli ha donato la vita. Non solo, ma fin dall’inizio tale debito ontologico assume la forma di una vera e propria colpa trasmessaci ereditariamente da Adamo e da Caino, in una maniera solo in parte riscattata dal sacrificio di Cristo. Ma per cogliere nella sua genealogia profonda il carattere costitutivo del debito – il modo in cui esso ritaglia la nostra soggettività – bisogna articolare la dottrina cristiana con il diritto romano. È appunto a partire da esso che il rapporto di dominio e subordinazione tra persone si organizza in una modalità che è penetrata profondamente nella nostra civiltà.
A Roma, colui che non poteva pagare i suoi debiti diveniva proprietà del suo creditore, che poteva fare del suo corpo, vivo o morto, ciò che voleva. Il creditore non era tenuto a rendere alla famiglia il cadavere del debitore insolvente, che poteva lasciare insepolto, a testimonianza del fatto che neanche la morte lo liberava di un debito non corrisposto. Se ci soffermiamo ad analizzare la condizione del nexus, o ductus, come veniva chiamato il debitore insolvente perché trascinato in catene dal creditore e perennemente esposto all’ignominia, si resta colpiti da alcune analogie con quanto accade anche oggi a chi entra in una condizione di insolvenza – il che può anche spiegare che qualcuno preferisca la morte.
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