Continua lo shopping di Pechino a Bank of China il 2% di Mediobanca

Continua lo shopping di Pechino a Bank of China il 2% di Mediobanca

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MILANO . Altro colpo dei cinesi tra le grandi quotate di Piazza Affari. Sempre attraverso la Bank of China, Pechino è entrata nel capitale di Mediobanca, con una quota del 2,001% del capitale dell’istituto di credito finanziario. La Consob, sul suo sito dove si pubblicano le partecipazioni rilevanti, fa risalire l’operazione della banca centrale cinese al 14 ottobre; prima di allora non risultavano posizioni precedenti. La Cina, che ha investito 8 miliardi in società quotate italiane, non aveva finora un piede in una banca; e ora ha colmato la lacuna, con possibili futuri sviluppi anche per le tante imprese asiatiche operanti nel paese.
A Piazzetta Cuccia i manager sono stati avvisati ieri mattina. Ma l’operazione, non concordata, non ha troppo sorpreso, né è spiaciuta. Perché viene considerata un effetto delle presentazioni fatte dal management per il mondo nella seconda decade di ottobre, aggiornando il piano strategico dell’anno scorso e che ha battuto molti obiettivi annunciati allora. Ieri in Borsa Mediobanca ha guadagnato il 4,33% a 6,33 euro. Da anni il management guidato da Alberto Nagel persegue una strategia di internazionalizzazione: più ricavi all’estero, più soci stranieri, meno partecipazioni incrociate e meno salotti buoni. Quasi metà del capitale di Mediobanca è ora straniero, fra un 35% di investitori istituzionali e il 7,5% di Vincent Bolloré vincolato al patto di sindacato che blinda il 31,5% dell’istituto. E una quota simile di fondi esteri comanda l’azionariato di Generali, dove pure Mediobanca è il maggior socio storico con un 13,24% destinato a ridursi attorno al 10% entro pochi anni. Anche nell’assicuratore triestino, nei mesi scorsi, la Banca cinese del popolo aveva piazzato un investimento poco sopra il 2%.
La tendenza degli investitori istituzionali a crescere di peso nelle banche italiane è stata ieri commentata da Carlo Messina, ad di Intesa Sanpaolo: «Loro maggior presenza negli organismi di governance sarà un percorso inevitabile, anche perché le Fondazioni bancarie devono andare verso una diversificazione del portafoglio».
Forse per un caso, l’investimento cinese è coevo alla missione ufficiale in Italia che una settimana fa ha portato una delegazione di imprenditori e politici, guidati dal primo ministro Li Keqiang, in visita nel paese. A margine delle riunioni istituzionali sono stati siglati accordi commerciali per quasi 10 miliardi di euro tra i due paesi, in quasi tutti i settori.
Negli ultimi mesi, il flusso degli investimenti di capitali cinesi in grandi imprese italiane si sta intensificando, in forma di una gigantesca fiche che si può ormai stimare nell’intorno dei 7-8 miliardi di euro di valore, e che annovera il 35% di Cdp Reti (la rete italiana del gas e dell’elettricità), il 2% di Eni e di Enel, il 2% di Fiat Chrysler Automobiles, di Telecom Italia e di Prysmian. La caratteristica di queste posizioni è che sforano tutte, anche se di poco, la soglia rilevante di comunicazione, con un effetto segnaletico chiaro. Oltre alle blue chip, in base a dati riportati dal Financial Times aggiornati a fine 2012, c’erano oltre 200 piccole e medie imprese italiane, con ricavi complessivi per un ammontare superiore a 6 miliardi di euro e oltre 10mila occupati totali, passate in parte o in tutto a investitori cinesi o di Hong Kong.
Nell’entrare nel capitle di Piazzetta Cuccia, tra l’altro, la banca centrale di Pechino sembra avere scelto la tempistica con accuratezza. La comunicazione è infatti avvenuta tre giorni prima del termine per depositare i titoli e avere il diritto a partecipare alla prossima assemblea, in calendario il 28 ottobre per esaminare il bilancio 2013-2014 e rinnovare gli organi sociali. E a poche settimane dal pagamento del dividendo, previsto il 26 novembre e pari a 0,15 euro per azione, dopo un utile d’esercizio di 465 milioni. Martedì prossimo il cda esaminerà anche i conti del primo trimestre fiscale chiuso il 30 settembre. Le attese medie degli analisti finanziari sono di ricavi per 470 milioni, costi per 190 milioni, utile prima delle tasse a 155 milioni e utile netto di 120 milioni.


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