Il conflitto sul futuro che Thomas Piketty non vuol vedere

by redazione | 8 Ottobre 2014 10:31

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Il primo libro del Capi­tale di Marx si apre con una frase tanto cele­bre quanto sug­ge­stiva: «La ric­chezza delle società nelle quali pre­do­mina il modo di pro­du­zione capi­ta­li­stico si pre­senta come una ‘immane rac­colta di merci’…».
Que­sta parola, «merce», non com­pare mai, o quasi, nelle 900 pagine che Tho­mas Piketty dedica al Capi­tale nel XXI secolo. La ragione non sta solo nel desi­de­rio di uno svec­chia­mento ter­mi­no­lo­gico o nella immu­nità dalle grandi con­trap­po­si­zioni teo­ri­che e poli­ti­che del XX secolo che Piketty si auto­cer­ti­fica, ma dal fatto che, pur recando lo stesso titolo dell’opera di Marx, Il Capi­tale di Piketty non costi­tui­sce una cri­tica del capi­ta­li­smo, delle sue forme, dei suoi pro­cessi e del rap­porto sociale che isti­tui­sce, ma una dia­gnosi delle ten­denze nega­tive che ne segnano la vicenda pre­sente e ne minac­ciano la sto­ria futura.
Una dia­gnosi pre­oc­cu­pata, dun­que, e un auspi­cio: quello che la demo­cra­zia possa ripren­dere il con­trollo sullo svi­luppo del capi­ta­li­smo. Lad­dove la demo­cra­zia stessa è con­ce­pita più che come un campo di ten­sione e uno spa­zio con­flit­tuale in perenne muta­zione, come uno schema meto­do­lo­gico e un modello ideale e idea­liz­zato nella scia di un haber­ma­siano «con­fronto delle idee».
La «scom­parsa della merce» e soprat­tutto di quella par­ti­co­lare merce che è la forza di lavoro, tra­scina con sé in una oscu­rità indi­stinta le lace­ra­zioni e le furiose con­trad­di­zioni che attra­ver­sano tutti i sog­getti della vita eco­no­mica e sociale, le astra­zioni che ne can­cel­lano la vita con­creta, i dispo­si­tivi che deter­mi­nano l’impotenza o il comando. E tutto que­sto in un tempo in cui l’«immane rac­colta di merci» si è arric­chita e con­ti­nua ad arric­chirsi di ele­menti gene­ri­ca­mente umani che non rica­de­vano, almeno fino a mezzo secolo fa, nella sua sfera di com­pe­tenza.
Ricorre invece con insi­stenza, nell’opera di Piketty l’espressione, oggi in gran voga, di «capi­tale umano» che, al di là del suo uso apo­lo­ge­tico e con­so­la­to­rio, desi­gna appunto il darsi in forma di merce e (mi si per­doni l’arcaicità) come puro e sem­plice valore di scam­bio, di sog­getti pro­dut­tivi non più sepa­rati dai loro mezzi di pro­du­zione, ma in larga misura sot­to­po­sti al comando e allo sfrut­ta­mento (altra parola messa al bando) dei deten­tori di ric­chezza. Si può natu­ral­mente pen­sare, ed è il caso dell’economista fran­cese, che la virtù rego­la­tiva del mer­cato e il modello della demo­cra­zia rap­pre­sen­ta­tiva costi­tui­scano un oriz­zonte che non può essere supe­rato, né sarebbe auspi­ca­bile farlo. Ma un conto è stare den­tro que­sto oriz­zonte limi­tan­dosi a denun­ciarne i limiti e le stor­ture, un altro, appli­can­dosi alla cri­tica di que­ste forme, rile­varne le irre­so­lu­bili con­trad­di­zioni e la dimen­sione con­flit­tuale che le sot­tende, con rela­tiva aper­tura sull’ignoto.

TERA­PIE PREVENTIVE

 

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L’argomentazione di Piketty, che ruota intorno alla cre­scita della dise­gua­glianza e alla sem­pre mag­giore con­cen­tra­zione della ric­chezza nelle mani di una ristretta fascia della popo­la­zione dei paesi più svi­lup­pati, pro­ietta in un certo senso in un futuro sem­pre rin­via­bile l’esplosione del con­flitto sociale, come con­se­guenza di uno squi­li­brio che finirà col supe­rare i livelli di guar­dia. Tra­scu­rando invece lo scon­tro imme­diato, sem­pre aspro e sem­pre pre­sente che sca­tu­ri­sce dalle forme stesse, intrin­se­ca­mente squi­li­brate, del capi­ta­li­smo, che ne con­nota i sog­getti e ne segna la con­creta vicenda sto­rica, tutt’altro che incline al pacato ragio­na­mento e alle solu­zioni razio­nali.
La com­pren­sione teo­rica di que­sto fosco futuro dovrebbe indi­care, secondo la più clas­sica fede illu­mi­ni­sta che il nostro autore fa pro­pria, i rimedi da adot­tare per pre­ve­nirlo.
Nel grande affre­sco, trac­ciato con l’aiuto di una impres­sio­nante mole di mate­riali sto­rici e sta­ti­stici dallo stu­dioso pari­gino, la cre­scita della dise­gua­glianza deter­mi­nata da un tasso di ren­di­mento del capi­tale (4\5%) assai mag­giore del tasso di cre­scita (1\1,5%, desti­nato a rima­nere tale per un lungo tempo) sem­bra essere un pro­cesso che si svolge senza sog­getti e senza volontà, sulla base di una dina­mica sto­rica alquanto disin­car­nata.
Piketty ripete innu­me­re­voli volte che non esi­stono for­mule mate­ma­ti­che in grado di dare una rispo­sta certa sui punti di equi­li­brio eco­no­mici e sociali. E che, alla fine, a inci­dere for­te­mente sul corso delle cose saranno volontà poli­ti­che e pres­sioni sociali. Ma que­ste ultime restano uno sfondo indi­stinto, celato die­tro espres­sioni gene­ri­che e vaghe, come «dia­let­tica demo­cra­tica» o «con­fronto delle idee» che non danno in nes­sun modo conto del capi­ta­li­smo come rap­porto sociale e della sua asprezza. Nelle pagine del Capi­tale nel XXI secolo ci si imbatte in nume­rosi gra­fici che, rife­ren­dosi a diversi indi­ca­tori, pre­sen­tano una forma a U. La con­cen­tra­zione della ric­chezza nelle mani della fascia più ricca, e ancor più di quella ultra­ricca, della popo­la­zione euro­pea è mas­sima all’inizio del ’900, dimi­nui­sce dra­sti­ca­mente tra il 1914 e gli anni ’50 ’60 per poi risa­lire a par­tire dagli anni ’80 e sem­pre di più fino ad oggi e nel pre­ve­di­bile futuro. (Diverso l’andamento negli Usa, ma ana­loga la ten­denza alla con­cen­tra­zione di ric­chezza nella fase più recente).
Que­sto crollo dei patri­moni, soprat­tutto in Europa tra la grande guerra e gli anni del mira­colo eco­no­mico, viene impu­tato da Piketty agli eventi «cata­stro­fici» e alle «distru­zioni» nella prima metà del ’900. Ma anche que­sti eventi sto­rici appa­iono quasi come feno­meni natu­rali, gene­rici, ogget­tivi. Non spicca per nulla, citato al mar­gine tra altri fat­tori, il peso enorme della Rivo­lu­zione bol­sce­vica, quale che sia il giu­di­zio che si voglia darne, o della scelta di forag­giare i fasci­smi per neu­tra­liz­zarne l’influenza e fre­narne l’espansione.

L’OPPOSIZIONE OPE­RAIA

Quella sto­ria ha inciso pro­fon­da­mente sui rap­porti sociali per lun­ghi anni. Se la paura dei grandi capi­ta­li­sti di per­dere il con­trollo sulla società e la cer­tezza delle pro­prie ren­dite potesse essere ripro­dotta su un gra­fico (a U rove­sciata) vedremmo che quanto più que­sta cre­sce di fronte all’affacciarsi di sog­getti poli­tici aggres­sivi, tanto più si accen­tua la redi­stri­bu­zione di red­dito verso il basso. Se, a par­tire dagli anni ’80 le dise­gua­glianze tor­nano a cre­scere è per­ché i deten­tori di capi­tale non hanno più avuto molto da temere da una con­tro­parte for­te­mente inde­bo­lita. Tut­ta­via, nella sto­ria eco­no­mica rico­struita da Piketty, a dispetto della ripe­tu­ta­mente negata auto­no­mia della «scienza eco­no­mica», le lotte ope­raie e popo­lari non tro­vano posto alcuno. Si può anche rite­nere che lo schema della lotta di classe sia oggi supe­rato, ma non certo negare che abbia deter­mi­nato il mondo del XIX e del XX secolo in modo decisivo.

TASSE MON­DIALI

Nella sta­bi­lità poli­tica ad alto tasso di con­trollo sociale e forte ricat­ta­bi­lità del «capi­tale umano», che carat­te­rizza da tempo i paesi ric­chi, nume­rosi fat­tori, che pos­siamo defi­nire «poli­tici», con­cor­rono all’aumento delle dise­gua­glianze: dalle retri­bu­zioni stra­to­sfe­ri­che dei super­ma­na­ger, (desti­nate pre­sto ad accu­mu­larsi e tra­sfor­marsi in patri­moni tra­smis­si­bili per via ere­di­ta­ria) del tutto irri­con­du­ci­bili a un cal­colo della pro­dut­ti­vità mar­gi­nale, e dun­que impu­ta­bili a ren­dite di posi­zione e poteri oli­gar­chici, alla dimi­nu­zione della tas­sa­zione sui grandi patri­moni dovuta alla con­cor­renza fiscale tra gli stati e all’influenza poli­tica degli oli­gar­chi. Ine­so­ra­bil­mente la for­bice tra i ric­chi da una parte, il ceto medio e i poveri dall’altra, si allarga.
È una ten­denza lar­ga­mente per­ce­pita che il ter­mo­me­tro storico-economico alle­stito da Pi­ketty dota di un fon­da­mento ogget­tivo. Non è un lavoro di poco conto in un con­te­sto poli­tico e politico-accademico molto attento alle ragioni della ren­dita e della ric­chezza pri­vata. Nel quale le posi­zioni oscil­lano tra il negare che, alla lunga, cre­sca la dise­gua­glianza e la mito­lo­gia secondo cui la cre­scita delle dise­gua­glianze, effet­ti­va­mente in atto, reche­rebbe in ogni caso un incre­mento del benes­sere gene­rale.
L’antidoto che l’autore pro­pone in chiu­sura del volume è una tas­sa­zione pla­ne­ta­ria, pro­gres­siva e annuale sul capi­tale (inteso in tutte le sue com­po­nenti immo­bi­liari, fon­dia­rie, azio­na­rie, finan­zia­rie) con lo scopo di riav­vi­ci­nare il tasso di ren­di­mento del capi­tale a quello di cre­scita eco­no­mica e arre­stare così la pro­gres­sione inde­fi­nita della disu­gua­glianza. Pin­ketty non si nasconde la dif­fi­coltà di un simile obiet­tivo, rite­nendo più rea­li­sti­che misure inter­me­die e par­ziali che muo­vano però in quella dire­zione. Ma su quali gambe dovreb­bero mar­ciare? E cosa ci garan­ti­sce che il fra­gile con­nu­bio tra capi­ta­li­smo e demo­cra­zia non si sia irri­me­dia­bil­mente esaurito?

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