Il colpo di grazia bipolare
La legge elettorale che Renzi intende varare entro l’anno è un sintomo della crisi democratica nella quale ci avvitiamo e un’avvisaglia di nuove regressioni. Al pari delle altre «riforme» istituzionali disegnate da questo governo e consacrate dal patto con Berlusconi.
Il confronto è alle prime battute e quanto si conosce del merito non consente analisi dettagliate. Tanto più che, investendo la durata della legislatura, ogni discussione sulla materia si sa come comincia ma non come andrà a finire. Tutti gli osservatori però concordano che Renzi farà di tutto pur di portare a casa il premio di maggioranza alla lista, in omaggio alla «vocazione maggioritaria» del Pd teorizzata sette anni or sono da Veltroni. L’idea è di portare finalmente a compimento, con l’istituzione di un regime bipartitico, la «rivoluzione bipolare» avviata negli anni Novanta.
Come leggere tale progetto? Cominciando col mettere in chiaro che bipartitismo significa due cose.
In primo luogo, quanto il premier vagheggia è l’estensione a un più vasto settore politico del modello autoritario oggi applicato in seno al Pd nelle relazioni con gli oppositori interni. Un sistema bipartitico contempla due grandi formazioni in grado di contendersi la quasi totalità dell’elettorato, al netto dell’astensionismo. Ciò significa che il capo di un siffatto partito sarà in condizione di imporre obbedienza a tutte le soggettività costrette a convergere (e ammesse) nella sua organizzazione. Sarà il dominus incontrastato di un’ampia zona del territorio politico nazionale, costretta ad attenersi ai suoi diktat. Se a ciò aggiungiamo che l’articolo 49 della Costituzione (stando al quale la vita dei partiti dovrebbe svolgersi ««con metodo democratico») è oggi totalmente disatteso (i partiti sono feudi comandati da ristrette cerchie selezionate in ragione della fedeltà al capo), è ragionevole prevedere un’ulteriore brutale lesione dei già compromessi standard di democrazia del paese.
Sostenere in questa situazione che le coalizioni elettorali hanno fatto il loro tempo perché oggi «serve il pluralismo in un solo partito» non è che la razionalizzazione della scelta di prosternarsi dinanzi al più forte senza badare a spese. Come la «sinistra» del Pd ben sa (salvo non averne sin qui tratto le debite conseguenze), nelle intenzioni (peraltro dichiarate) di Renzi il superamento delle coalizioni mira a un unico fine: governare da solo, senza attardarsi in mediazioni né dover fare concessioni a chicchessia. Al massimo il pluralismo nel Pd renziano (e lo stesso vale per la controparte conservatrice o come dir si voglia) potrebbe realizzarsi secondo il modello del «parlamentarismo nero» di gramsciana memoria. Il quale, com’è noto, concerneva il partito della nazione ai tempi del duce.
C’è poi un secondo tema, ancora più di fondo. Il citato articolo 49 della Carta stabilisce che «tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere (…) a determinare la politica nazionale». Se si è molto ingenui, si può pensare che nessuna legge elettorale potrebbe soffocare la libertà di associarsi. Ma una legge bipartitica la svuota, col prefigurare uno schema di contendibilità del potere che scoraggia la formazione di forze politiche minori.
Si obietterà: non ci sono forse «grandi democrazie» su basi bipartitiche? Con questo brillante argomento si è proceduto vent’anni fa alle «riforme» che hanno «modernizzato» la struttura istituzionale della Repubblica, di fatto stravolgendo la forma di governo parlamentare. Per cui ci ritroviamo una Costituzione materiale – un presidenzialismo spurio per cui nessuno si perita di lamentare che un presidente del Consiglio non sia stato «eletto dal popolo» – esposta a derive (in atto) di stampo francamente autoritario.
Sta di fatto che quell’argomento, solo in apparenza ineccepibile (sulla democraticità dei paesi anglosassoni ci sarebbe molto da dire), è letteralmente fuori luogo quando si tratta dell’Italia, poiché il bipartitismo può conciliarsi con accettabili standard democratici soltanto in paesi nei quali la storia politico-culturale si è sviluppata secondo uno schema duale. Di norma, mediante la contesa tra progressisti (socialdemocratici o laburisti) e conservatori (liberali), sulla base di una condivisa lealtà strategica nei confronti della struttura sociale esistente (la società capitalistica). Non è questo il caso del nostro paese, che si è unito e ha vissuto per 150 anni sullo sfondo di un più articolato ventaglio di culture politiche.
In Italia non c’è soltanto la cultura liberale – laica o cattolica; progressista, moderata o reazionaria – che oggi di fatto ispira la totalità delle forze politiche in parlamento. Hanno cittadinanza anche posizioni critiche, a cominciare dalla cultura classista legata alla storia del movimento operaio. Posizioni che resistono, avendo dato un contributo decisivo alla costruzione della democrazia italiana, benché tutte le «riforme» di questi 20–25 anni abbiano mirato ad «asfaltarle».
Ora Renzi vuol dare il colpo di grazia anche su questo terreno, incurante del fatto che ciò radicalizzerebbe la crisi di rappresentatività del sistema provocando il definitivo distacco dalla politica di quanti già oggi disertano in massa gli appuntamenti elettorali. Non è un errore dal suo punto di vista, né un sacrificio, considerati i vantaggi che ci si ripromette di trarre dalla riduzione dello spettro degli interessi sociali in grado di esigere rappresentanza.
Negli anni di Weimar Hans Kelsen osservò che un sistema è democratico soltanto se riflette la composizione politica del paese e salvaguarda i diritti delle minoranze. Per questo l’unico sistema elettorale compatibile con l’ideale democratico è il proporzionale, posto che si è costretti ad affidarsi alla rappresentanza. Quello che si profila nella post-democrazia italiana, orfana di custodi della Costituzione, è l’esatto opposto del modello kelseniano. A riprova del fatto che spesso dalla storia non si impara nulla.
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