Il cinico gioco della Turchia

by redazione | 13 Ottobre 2014 17:32

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Quello che si sta giocando in queste ore è una cinica sfida a braccio di ferro tra Turchia e NATO.
A pagare, in questa prova di forza sono le migliaia di persone di Kobane (la città e i villaggi di Rojava, il Kurdistan siriano sotto assedio da tre settimane delle milizie dello Stato Islamico), civili e civili in armi (quelli che compongono le YPG, Unità di Difesa Popolare, che soli stanno resistendo al ben armato Stato Islamico, sono – ed è bene ripeterlo – giovani donne e uomini curde, civili), ma anche i kurdi nel loro insieme e quanti in Turchia si oppongono al nuovo sultanato imposto dal presidente Recep Tayyip Erdogan. Perché come a Kobane anche nel Kurdistan turco e nella stessa Turchia sono ore tesissime: l’esercito ha riempito le strade di Amed (Diyarbakir, la capitale del Kurdistan turco) come non si vedeva da anni.
Zelanti cronisti si sono affrettati a sottolineare che le immagini che giungono in queste ore dalle strade di Amed, Batman, Varto, Mardin, Kiziltepe, Istanbul, Izmir, Ankara ci hanno riportato indietro di vent’anni. E’ vero, però no – come vorrebbero suggerire questi menzogneri scrivani di regime – perché le manifestazioni violente oggi come allora sono orchestrate da “terroristi”.
Oggi come allora la violenza è dello stato e dei suoi apparati. Potrebbero essere immagini del settembre del 1980 quando i carri armati occuparono le strade della Turchia alla vigilia del più cruento dei golpe militari sofferti dal paese in trent’anni quello del 12 settembre 1980. Carri armati, blindati, coprifuoco, militari, paramilitari, civili al soldo dello stato che attaccano kurdi, studenti, militanti di sinistra, sindacalisti.
O potrebbero essere immagini degli anni ’90: gli stessi blindati, militari, paramilitari, civili in armi – questa volta del gruppo Hizbullah, un gruppo ‘islamico’ (nessun contatto né legame con Hezbollah libanese o palestinese) creato ad hoc dallo stato proprio per combattere il PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan).
Le notizie che arrivano da Batman (il cuore di Hizbullah negli anni ’90) sembrano uscite da periodici di allora: cinque giovani curdi che protestavano contro l’assedio di Kobane sono stati sequestrati da militanti del partito (legale) Huda-Par (Partito della Causa Libre), partito islamico radicale con più che una simpatia per lo Stato Islamico.
La Turchia dunque sta giocando questo braccio di ferro con la Nato e gli Stati Uniti in maniera cinica e senza preoccuparsi del sangue che già ha cominciato a scorrere sul suo territorio (32 i morti da martedì). Per il presidente Erdogan si tratta di una partita troppo importante: e se il costo sarà – come sarà – alto, evidentemente per lui e la sua banda il gioco vale la candela. Perché Erdogan non lascerà che un territorio autonomo curdo alla frontiera con Siria diventi realtà: le tre regioni kurde che hanno proclamato l’autonomia democratica all’inizio dell’anno, si snodano di fatto lungo i 910 chilometri di frontiera con il Kurdistan turco, da Aleppo fino al nord est, nella provincia di al-Hasakkah.
Il braccio di ferro evidenzia anche quello che fino a questo momento gli alleati della NATO hanno solamente sussurrato a labbra chiuse e cioè che Ankara si è dimostrata “terribilmente tiepida” nel suo approccio allo Stato Islamico (e al Fronte al-Nusra). Non è un mistero, e ci sono le prove, che la Turchia abbia offerto addestramento militare, armi e appoggio logistico (curando i suoi militanti in ospedali turchi, gli ultimi sono arrivati solo qualche giorno fa) sia allo Stato Islamico che al Fronte al-Nusra.
Ora che Washington vuole (o così dice) “contenere e limitare” le forze dello Stato Islamico in Iraq e Siria, la Turchia si vede sotto pressione da parte della NATO. Perché è evidente che per “limitare”
l’Esercito Islamico serve un intervento diretto delle forze armate turche. Ankara non ha firmato, lo scorso 5 settembre, il comunicato di Jeddah (nel quale gli alleati, USA, Europa più alcuno stato arabo, hanno dichiarato guerra allo Stato Islamico) proprio per quei 910 km di frontiera che condivide con la Siria, e non ha nemmeno, almeno pubblicamente, annunciato l’invio di forze armate alla coalizione.
Ankara si trova di fronte ad una decisione cruciale: voltare le spalle allo Stato Islamico (e ai suoi “amici” in territorio turco) o cercare di giocare un ruolo di “aiuto non troppo” nella coalizione, per esempio, come ha fatto fin qui, consentendo l’utilizzo della base di Incirlik e offrendo appoggio logistico e di intelligence.
In entrambi i casi, lo scenario che si presenta è drammatico, di repressione e violenza, soprattutto all’interno. Obiettivo principale sono i curdi, però non soltanto loro. Non si può dimenticare che la rivolta di Gezi Park, nell’estate del 2013, ha lasciato un movimento di protesta pesantemente ferito però vivo. Lo dimostrano le manifestazioni di questi ultimi giorni. E la risposta delle autorità è stata la stessa di sempre: “Alla violenza risponderemo con più violenza”, hanno dichiarato vari ministri. I kurdi si sono riversati per le strade (anche europee) da quando è iniziato l’assedio a Kobane (iniziato il 15 settembre) e non si ritireranno, nemmeno se questo significa doversi difendere dagli attacchi di polizia, militari e militanti di gruppi paramilitari. Trentadue persone sono morte, oltre mille sono state arrestate, centinaia i feriti. Tra i morti ci sono giovani sostenitori di Rojava ma anche militanti di Huda-Par, sostenitori dello Stato Islamico e agenti di polizia.
In questa situazione è evidente che quello che resta del “processo” di dialogo tra Abdullah Ocalan (leader incarcerato del PKK) e i rappresentanti del governo turco è appeso ad un filo. Ocalan ha detto che aspetterà fino al 15 ottobre per vedere movimenti genuini da parte del governo. Però quello che sta accadendo in queste ore per le strade del Kurdistan e della Turchia (nonostante gli appelli alla calma dei partiti e organizzazioni pro-kurde) sembra aver anticipato questa data e comunque sarà molto difficile ricostruire un ambiente anche minimo di fiducia tra le parti, specialmente se Kobane cadrà.
Erdogan e il suo primo ministro (ex ministro degli esteri educato a Washington) Davutoglu, sembrano aver puntato sulla strategia del prendere tempo (non una novità: questo è quello che sta facendo Erdogan da quando ha iniziato il processo di dialogo con Ocalan): alla NATO non hanno detto un no secco. Non possono farlo, semplicemente, essendo il secondo esercito dell’Alleanza Atlantica. Continuano a dire che l’intervento e l’appoggio di Ankara devono essere vincolati ad alcune condizioni, tra le quali la creazione di una zona cuscinetto (proprio dove si trovano Kobane e le autonomie curde) e l’impegno della coalizione a far cadere il presidente siriano Bashar al-Assad.
Se cade Kobane – questo il ragionamento dei cinici governanti turchi – allora stringere un po’ i cordoni della borsa e “smettere” di aiutare l’Esercito Islamico (la zona cuscinetto faciliterebbe questo “distanziamento” di Ankara dal gruppo islamico) sarebbe meno complicato. Per parte sua Washington ha detto (e sembra una dichiarazione volta a tendere una mano alla Turchia) per bocca del suo segretario di stato John Kerry che “per quanto orribile sia assistere in diretta a ciò che sta accadendo a Kobane, dobbiamo essere distaccati e vedere l’obbiettivo originario che dall’inizio della campagna è stato colpire i centri di controllo e comando e le infrastrutture dell’EI, non solo a Kobane ma in tutta la Siria e in Iraq”.
Parole dirette a “conquistare”, Ankara che sa bene di non potersi aspettarsi pazienza infinita da parte della NATO.
I piani turchi sono in realtà già abbastanza compromessi a causa della “anomalia” kurda: la resistenza del popolo di Kobane dimostra ancora una volta che non si possono – nel difficile equilibrio del medio oriente – fare i conti senza i kurdi. Che non sono tutti uguali o, detta altrimenti, non sono tutti così facilmente “addomesticabili” come i curdi iracheni. Quello che né la Turchia, né l’occidente, né lo Stato Islamico e nemmeno i paesi dell’area mediorientale hanno imparato è che la volontà e il desiderio di libertà, autonomia, autodeterminazione sono armi molto più pericolose di carri armati e missili. Perché il desiderio di libertà non si esaurisce, i missili sì.
Orsola Casagrande

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