Carlos Luis Malatto. Il militare accusato di tortura vive da pensionato in parrocchia

by redazione | 14 Ottobre 2014 12:42

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GENOVA Pomeriggio placido come altri a Ponente. Una traccia di fango per l’ultima alluvione, solo un negozio di alimentari aperto, una scuola pubblica e un istituto privato, il circolo degli anziani che giocano a carte, la strada che dopo la curva si allarga sulla facciata di San Giacomo Apostolo di Cornigliano. Alle spalle della chiesa affidata ai padri Scolopi, stessa struttura e uguale numero civico, ci sono la segreteria, una sala per le riunioni e le feste, due piani di alloggi. E c’è un sessantenne di passo svelto, che risale l’ultimo tratto della via, tra l’edicola e il tabaccaio, verso l’ingresso. È lei Carlos Luis Malatto? Esita, sorride, ormai è stanato: «Sono io».
Dall’ultima foto disponibile online sono trascorsi quasi quarant’anni. Si riconoscono i lineamenti sottili, una calvizie precoce, che sulle tempie si è arrestata. Ora porta una barba rada non del tutto bianca, un jeans scuro, una polo anonima. Un pensionato con il borsello a tracolla e una sacca blu a mano: «Rientro ora da Milano», si giustifica. Del resto, in Italia è un uomo libero, di alloggiare in una parrocchia di Genova come di prendere il treno.
Se fosse rimasto in Argentina, sarebbe sotto processo per violazione dei diritti umani. I suoi commilitoni di stanza nella provincia di San Juan, con ruoli di comando negli anni della dittatura (1976-83), sono stati condannati per torture e sparizioni. Lui no: è andato via in tempo. Arrestato, poi scarcerato, quando sarebbe dovuto tornare in cella e comparire davanti alla corte, era già lontano, al di là delle Ande.
La sua vecchia foto da sottoufficiale timido fu stampata, allora, sui cartelli di «ricercato». Ma la caccia durò poco. Fuggito in Cile, quindi arrivato in Italia grazie alla doppia cittadinanza nel 2011, «mi presentai io stesso alla Questura di Roma — precisa — per mettermi a disposizione della giustizia». Buenos Aires chiese l’estradizione, la Cassazione con sentenza del 24 luglio 2014 l’ha definitivamente negata per «insussistenza delle condizioni», lasciando «stupiti» i rappresentanti dell’ambasciata.
«In Italia mi hanno ascoltato — può dire adesso Malatto — In Argentina nessuno lo faceva, allora ho detto ai miei figli: prendo il passaporto italiano e vado via». Italiano di Sestri Levante era il nonno, racconta, sbarcato in Sudamerica nel 1890. Contadini per due generazioni, poi militari, Carlos Luis e suo padre, nella città di Mendoza. «Finita la scuola per ufficiali la mia prima destinazione fu San Juan, nel 1973». Il golpe è del ’76, ma la preparazione, questa è Storia, nei ranghi dell’esercito cominciò anni prima. Se ne ricorda? «Nulla».
Nella sentenza che condanna i compagni d’armi e riporta le testimonianze dei sopravvissuti, è citato ampiamente anche lui. «Il tenente Malatto è uno dei più segnalati dalle vittime per la partecipazione agli interrogatori sotto tortura», si legge. Così prossimi lui e l’allora tenente Jorge Olivera (condannato all’ergastolo e poi evaso), da essere identificati come un sol uomo, «Malivera». «Fantasie — ribatte —: non ho niente a che fare con lui».
Eppure, l’avvocato che ha aiutato Malatto a Roma e nei due anni e mezzo trascorsi all’Aquila, è Augusto Sinagra, già legale di fiducia del fondatore della Loggia P2 Licio Gelli (di cui sono documentati i legami con i golpisti argentini). E fu proprio Sinagra a muoversi quando nel 2000 Olivera venne arrestato a Roma e poi, sulla base di un documento risultato falso, venne rapidamente scarcerato e rientrò in Argentina.
Malatto agita le braccia come a cancellare: «Non ne so nulla, non ho visto mai nulla». Un continuo sminuire, mimetizzarsi, togliere sagoma, si direbbe in gergo militare. Ma alla domanda «Come se li ricorda quegli anni, com’era l’Argentina allora?» il tenente colonnello tiene la posizione: «Per la popolazione c’era ordine e sicurezza, non c’erano problemi».
E lui adesso non ne vuole. «Nei due anni trascorsi all’Aquila ho fatto volontariato alla Confraternita della Misericordia — racconta —: trasporto pazienti». A Genova si è trasferito ad agosto. Uno dei preti di questa chiesa è argentino «della mia stessa città, l’ho contattato via Internet, e mi ha detto: vieni». Che vita fa qui? «Niente di particolare», per carità: «Frequento la gente della parrocchia, il circolo, la segreteria, il coro». Canta? «Ma no — si schermisce —, vado alle prove». Un po’ affranto per aver lasciato per sempre l’Argentina: «Sono vedovo, ma lì ho quattro figli maschi». Tocca ricominciare, stringe le spalle, «il 22 ottobre faccio 65 anni, voglio cercare un lavoro. Forse un po’ stanco di testa — sottolinea, meno docile —, ma fisicamente ancora in forma».

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