by redazione | 15 Ottobre 2014 9:08
«La verità la conoscono Dio e questo registratore». Rachid Assarag è stato arrestato nel 2008 per aver violentato due donne. Un fatto pesante che ha meritato «un supplemento di pena», almeno a giudizio degli agenti penitenziari del carcere di via Burla, a Parma, dove l’uomo è stato rinchiuso tra il 2010 e il 2011. Botte, minacce di morte, umiliazioni di vario genere. D’altra parte, là fuori, è questa la legge che si invoca per chi si macchia di reati tanto odiosi come quelli sessuali: la galera non basta, serve qualcosa di più.
Nella mattinata di ieri, il 40enne marocchino si è presentato in aula, a Parma, sventolando una foto di Stefano Cucchi: «Non voglio finire così», ha detto ai pm, che lo stavano interrogando nell’ambito di un processo che lo vede imputato per oltraggio a pubblico ufficiale. E’ una storia che va avanti da tempo: lui inoltra esposti alla procura e gli agenti lo denunciano, un modo come un altro per tenerlo dentro. Finché continuerà a subire processi su processi per le motivazioni più svariate, Assarag non potrà usufruire di alcuna misura alternativa al carcere.
Davanti ai pm Assarag ha parlato delle violenze subite, e delle prove che ha a disposizione: nastri magnetici sui quali sono state registrate le voci di alcuni secondini. Conversazioni che restituiscono un affresco piuttosto nitido della realtà inquietante e violentissima che si vive dietro le sbarre, tra spavalderie poliziottesche («Ne ho picchiati tanti, non mi ricordo se in mezzo c’eri anche tu»), amare confessioni da parte di un medico («Vuole denunciarle? Poi le guardie scrivono nei loro verbali che non è vero… Che il detenuto è caduto dalle scale; oppure il detenuto ha aggredito l’agente che si è difeso, ok? Ha presente il caso Cucchi? Hanno accusato i medici di omicidio e le guardie no… Ma quello è morto, ha capito? E’ morto per le botte») e un tremendo dialogo con una guardia: «Va bene assistente – dice Rachid –, guarda il sangue che è ancora lì, guarda, non ho pulito da quel giorno, lo vedi?». «Sì, ho visto – la risposta –, come ti porto, ti posso far sotterrare. Comandiamo noi, né avvocati, né giudici. Nelle denunce tu puoi scrivere quello che vuoi, io posso scrivere quello che voglio, dipende poi cosa scrivo io…».
L’uomo si è procurato il registratore grazie all’aiuto di sua moglie, Emanuela D’Arcangeli, che, in un modo o nell’altro, è riuscita a farglielo arrivare in cella. E lui l’ha usato come meglio non poteva fare per cercare di incastrare gli agenti che l’avevano picchiato e che, proprio davanti a lui, non si vergognavano di rivendicare i propri abusi di potere, il conclamato monopolio della violenza, inconsapevoli però che tutto quello che stavano dicendo veniva registrato.
A volerla dire tutta, comunque, le violenze denunciate da Assarag, gli investigatori avrebbero potuto scoprirle diverso tempo fa: per mesi un esposto con gli stessi elementi usciti fuori ieri durante l’interrogatorio è rimasto a prendere polvere in qualche ufficio nella procura di Parma. Adesso, però, le indagini dovrebbero partire sul serio: se ne parlerà alla prossima udienza, il 12 dicembre.
Alla fine dell’udienza, la procura ha deciso di acquisire agli atti non solo le registrazioni clandestine (che saranno sottoposte a perizia), ma anche i diari del detenuto e ha ordinato di perquisirne la cella a Sollicciano, dove adesso è recluso. Intanto, il Dap – senza capo ormai dalla fine di maggio – ha annunciato di aver aperto un’inchiesta interna sulla vicenda di Parma, mentre il clima si fa sempre più teso, in un ambiente che non riesce ad accettare il fatto di non essere più al di sopra di ogni sospetto. Prossimamente, il Dipartimento andrà anche in visita ispettiva in via Burla, ma, assicurano qualora qualcuno avesse dei dubbi: «Non vogliamo in alcun modo interferire con il lavoro della procura».
Il carcere di Parma è già finito più volte in cronaca per altri casi di maltrattamento (come quello di Aldo Cagna, con gli agenti che sono stati condannati a 14 mesi) o per le condizioni allucinanti dell’infermeria interna, grazie a una battaglia che il Garante dei detenuti dell’Emilia Romagna continua a portare avanti nel solito, colpevole, clima di indifferenza generale.
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