Articolo 18, il vestito antico del rottamatore

by redazione | 1 Ottobre 2014 8:58

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La domanda è piut­to­sto sem­plice. Stiamo andando oltre lo Sta­tuto dei lavo­ra­tori sti­lato nei lon­tani anni ‘70 o stiamo tor­nando a prima di quell’impianto nor­ma­tivo? Nei rap­porti di forze tra lavo­ra­tori e datori di lavoro sem­brano sus­si­stere pochi dubbi: ciò a cui stiamo assi­stendo è un ritorno all’antico o, quan­to­meno, alla sua imma­gine ingan­ne­vole e idea­liz­zata: il libero mer­cato, la legge natu­rale della domanda e dell’offerta, la con­cor­renza per­fetta, il suc­cesso del merito. Che nel corso di più di 40 anni l’ombrello dello Sta­tuto si sia ristretto al punto da lasciare sotto le intem­pe­rie una massa sem­pre più impo­nente di sog­getti è un fatto poco discu­ti­bile. Che gli stru­menti per aggi­rarlo e limi­tarne l’applicazione fino all’insignificanza si siano gran­de­mente mol­ti­pli­cati e affi­nati, altret­tanto. Ma una cosa è evi­dente: a imporre le attuali con­di­zioni sul mer­cato del lavoro non è certo la legi­sla­zione che lo riguarda o la poli­tica che pre­tende di rifor­marlo o di con­ser­varne i mec­ca­ni­smi dati.
Sono la glo­ba­liz­za­zione e le delo­ca­liz­za­zioni, da una parte, e l’automazione, dall’altra, ad avere segnato il destino dei sala­riati, cui si aggiunge, infine, il crollo dei con­sumi di massa ali­men­tato dalla Grande depressione.

Dire che il destino dei lavo­ra­tori stia nelle mani dei magi­strati è una colos­sale baggianata.

Di con­se­guenza, l’abolizione dell’articolo 18 dello Sta­tuto nella nostra pro­vin­cia ita­liana non deter­mi­nerà né un aumento né una dimi­nu­zione dell’occupazione. La legge e un sistema fiscale ves­sa­to­rio si sono sem­mai pro­di­gati nel garan­tire la debo­lezza e la ricat­ta­bi­lità delle forme di atti­vità pro­dut­tive escluse dalle clas­si­che garan­zie del lavoro sala­riato evi­tando di ela­bo­rare nuove forme di tutela o di inve­stire risorse col­let­tive a soste­gno del lavoro auto­nomo, inter­mit­tente e pre­ca­rio. Un feno­meno con­na­tu­rato all’attuale strut­tura pro­dut­tiva e non certo con­se­guenza di un mode­sto spau­rac­chio come l’articolo 18.

Il disin­te­resse per que­sto mondo in costante espan­sione e la deter­mi­na­zione, di per sé ragio­ne­vole, di difen­dere sem­pre e comun­que le garan­zie, sia pure tra­bal­lanti, di chi ancora le pos­se­deva, si accom­pa­gnava alla fede incrol­la­bile nel ritorno della piena occu­pa­zione. Senza com­pren­dere che quest’ultima già si dava nella forma per­versa che abbiamo sotto gli occhi di una gene­rale “dis-retribuzione” social­mente ed eco­no­mi­ca­mente pro­dut­tiva, ma a livelli mise­ra­bili di red­dito e nulli di garanzie.

Se non si trat­tasse di un “ritorno all’antico” con­ver­rebbe chie­dere ai rifor­ma­tori che cosa di nuovo inten­dano costruire al posto del vec­chio Sta­tuto, ma le rispo­ste si annun­ciano reto­ri­che ed eva­ne­scenti. Del resto la tro­vata degli 80 euro in busta paga (per la limi­tata pla­tea che la pos­siede) indica che il governo si muove entro la logica clas­sica del lavoro sala­riato. Restando nella quale l’abolizione dell’articolo 18 è un obiet­tivo squi­si­ta­mente di destra. Diverso sarebbe il discorso se si volesse affron­tare dav­vero la com­po­si­zione attuale del lavoro vivo (quello che i moderni restau­ra­tori pre­fe­ri­scono chia­mare “capi­tale umano”, tanto per impu­tar­gli la respon­sa­bi­lità esclu­siva della pro­pria ban­ca­rotta), ma così non è, nean­che lon­ta­na­mente. Quanto ai capi­tali (e le capi­tali) euro­pei, che stu­pidi non sono, dif­fi­cil­mente si faranno incan­tare dalla favola degli stra­bi­lianti effetti pro­dotti dall’abolizione dell’articolo 18, in cam­bio della quale con­ce­dere gra­zio­sa­mente più fles­si­bi­lità nella riscos­sione delle pro­prie rendite.

Per­ché, allora, tanto acca­ni­mento intorno a un for­ti­li­zio piut­to­sto sguar­nito? Può darsi che il nostro pre­mier, che non brilla certo per mode­stia, si sia appas­sio­nato alla sto­ria degli “uomini (e donne) illu­stri”. I con­trol­lori di volo negli Stati uniti e i mina­tori in Gran Bre­ta­gna non erano certo rap­pre­sen­ta­tivi della gene­ra­lità della forza lavoro dell’epoca loro. Eppure Rea­gan basto­nando i primi e That­cher i secondi, hanno effet­ti­va­mente impresso una svolta al rap­porto tra capi­tale e lavoro e ai rap­porti sociali più in generale.

Quella svolta già c’è stata e con­fi­gura ancora il nostro presente.

Lo scon­tro ideo­lo­gico si è con­su­mato da un pezzo ed è chiaro a tutti quali sono stati i vin­ci­tori e quali i vinti. Dalla sini­stra si attende ancora invano una rispo­sta a quella con­tro­ri­vo­lu­zione vit­to­riosa. Senza nostal­gia per la cul­tura della miniera, ma nean­che per quella della sua cele­brata car­ne­fice. Assi­stiamo invece alla ripro­po­si­zione far­se­sca e fuori tempo mas­simo di quel memo­ra­bile scon­tro. Come i cul­tori rina­sci­men­tali dell’antico il nostro “inno­va­tore” si sen­tirà come un “nano sulle spalle di giganti”.

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