Solo il 3% alle alluvioni, il resto è una grande opera
Colto in flagrante sull’impostazione dello Sblocca Italia che stanzia 110 milioni per la difesa idrogeologica (comma 8 dell’art. 7) e 3.890 milioni per i cementificatori e asfaltatori d’Italia (comma 1 dell’art. 3), il primo ministro Renzi ha richiamato su Facebook i pilastri del suo disegno di riforma del paese: «Si chiamano Sbloccaitalia, riforma della P.A., riforma costituzionale, riforma della giustizia, cantieri dell’unità di missione le priorità per l’Italia che vogliamo». In questo modo si è dato la zappa sui piedi perché le cifre sono quelle che abbiamo riportato: alla salvaguardia dalle alluvioni vengono destinate risorse pari al 3% di quanto si regala alle consorterie delle grandi opere.
«Userò la stessa determinazione per spazzare via il fango della mala burocrazia», ha poi affermato Renzi. Dietro questa frase c’è la filosofia che ha ispirato lo Sblocca Italia con la cancellazione di regole e controlli. È una cura fallimentare: i ricorsi contro gli appalti per la riduzione del rischio idrogeologico di Genova non sono stati infatti presentati da «comitatini o professoroni». L’impresa che si è vista sfuggire l’appalto è infatti di proprietà di una tra le maggiori imprese di Genova. E se un imprenditore arriva a denunciare una gara è perché a furia di semplificare, gli appalti in Italia vengono assegnati nella più assoluta discrezionalità da parte della politica. Per importi fino a 500 mila euro è sufficiente una gara informale ed è evidente che un sindaco può far vincere chi vuole. Negli ultimi venti anni si sono alterate le regole del gioco economico e della trasparenza in favore della discrezionalità.
Del resto, è stato proprio Renzi che — in seguito agli scandali che hanno fatto emergere la facilità con cui i privati potevano agire in piena discrezionalità e rubare cifre gigantesche nella realizzazione delle grandi opere — ha nominato uno straordinario magistrato come Raffaele Cantone a capo della Civit, l’autorità nazionale anticorruzione, e commissario alla realizzazione dell’Expo 2015. Il governo “commissaria” le grandi opere per ricostruire le regole e con lo Sblocca Italia estende il modello discrezionale a tutte le opere pubbliche. Non c’è chi non comprenda la follia di questa prospettiva.
La tragedia di Genova dimostra che lo Stato dovrebbe concentrare tutte le risorse nell’opera di risanamento idrogeologico del paese. Dall’inizio del 2014 le grandi alluvioni sono state 10, hanno causato 11 morti e immense devastazioni. Se il governo avesse a cuore il destino dell’Italia dovrebbe cambiare agenda e impiegare tutte le intelligenze che abbiamo in campo tecnico per l’immensa opera di risanamento idraulico e geologico di un paese che sta franando sotto i colpi del cambiamento climatico.
In questo campo, la fretta e la semplificazione non sono le migliori consigliere. Nel campo idrogeologico è necessaria una visione di lungo periodo per ricostruire l’equilibrio del territorio, così come era previsto nella legge sulla difesa del suolo (183/89) che imponeva di fare i piani di bacino idrografico in Italia. È stata la politica a non volerla attuare, la difesa del suolo è stata sconfitta dai cementificatori e per questo le nostre città sono spazzate via dalla furia delle acque. Altro che burocrazia.
Franco Gabrielli, capo della protezione civile, conosce per il ruolo che svolge l’insostenibilità dello stato del territorio: qualche mese fa, dopo l’ennesima alluvione, aveva azzardato l’ipotesi della moratoria del cemento per rimettere in ordine l’ambiente. Se Renzi vuole davvero cambiare verso al paese lo nomini ministro per la Cura del Territorio e licenzi Maurizio Lupi, il convinto amico del cemento.
E infine le risorse. Per uscire dalla miseria dei 110 milioni previsti nello sblocca Italia (solo per riparare i danni di Genova ne dovremo spendere 400) il primo ministro ha azzardato che utilizzerà al più presto i 2 miliardi per la difesa del territorio non spesi «per colpa della burocrazia». Non è vero, ma non fa nulla: per cambiare verso stanzi davvero cifre pari a quelle che regala alle grandi opere. Con i 4 miliardi previsti per i tanti inutili Mose, si potrebbe riportare in pochi anni la sicurezza nel territorio italiano. È l’ultima occasione per salvare l’Italia dal fango che la sta sommergendo.
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LA CRISI politica che si è aperta dopo le elezioni assomiglia sempre più ad una partita di scacchi. Ognuno muove il proprio pedone, ma nessuno sembra in grado di arrivare in fondo. Di dare lo scacco matto. E la direzione del Partito Democratico ha plasticamente disegnato questa immagine. Una potenziale paralisi che contiene al suo interno il germe del ritorno al voto. Un rischio che tutti scansano ma che chiunque mette nel conto.
VICENZA: ALTRO CHE LE NUTRIE!
NUOVA BASE AMERICANA E ALLUVIONI
Con una tecnica del “capro espiatorio” da manuale, sindaci e assessori leghisti (sostenuti dalle associazioni dei cacciatori) hanno elaborato una versione moderna del “gatto nero” medioevale (o di altre povere bestie criminalizzate e sterminate nel corso dei secoli: lupi, salamandre, rapaci notturni…). Stavolta è toccato alla pacifica e vegetariana nutria, cugina del castoro, accusata di aver provocato con le sue tane il crollo degli argini (in particolare quelli del del Timonchio e del Bacchiglione un paio di anni fa e più recentemente quelli del Retrone).
Altri presunti colpevoli, i tassi (praticamente scomparsi nelle campagne, sopravvivono solo sui Colli Euganei e Berici!) e le volpi. Per il momento nessuno ha ancora tirato in ballo le tane del martin pescatore. Tra le soluzioni proposte, rifornire di “buoni -benzina” (sarebbero già stati stanziati 13mila euro dalla Provincia) un migliaio di cacciatori vicentini (a cui finora venivano date solo munizioni) che potranno agire indisturbati contro i poveri roditori.
Se “la domesticazione degli animali ha posto le basi del pensiero gerarchico e fornito un modello e l’ispirazione per lo schiavismo” (“Un’eterna Treblinka. Il massacro degli animali e l’Olocausto” Charles Patterson, Editori Riuniti – 2003), questo atteggiamento spietatamente specista evoca i metodi delle pulizie etniche.
Quella delle nutrie è una balla. Gli argini si trovano a parecchi metri dalle rive e le poche nutrie rimaste in circolazione (quelle sfuggite alla campagna di sterminio iniziata già da qualche anno) preferiscono avere una tana sulle sponde, con facile e immediato accesso all’acqua.
Il Coordinamento protezionista vicentino aveva condotto una propria indagine nelle zone colpite dall’alluvione verificando come “l’acqua abbia rotto esclusivamente in zone dove di recente erano stati effettuati interventi”. Per esempio il Timonchio (un torrente a fondo sassoso dove non si segnalano nutrie) “ha trascinato a valle imponenti lavori di consolidamento e imbrigliamento realizzati a Molina di Malo da pochi mesi”. Questo per quanto riguarda Caldogno e Cresole. In altre zone l’acqua ha semplicemente esondato, superando le barriere a muro esistenti (a Vicenza, Debba, Montegalda…).
Sicuramente una delle cause principali delle devastanti alluvioni è la quasi totale cementificazione di una provincia dove il terreno non è più in grado di assorbire. Ormai si vorrebbe costruire zone artigianali e villette a schiera anche nel greto dei torrenti. In pochi anni il colore del territorio vicentino è passato decisamente dal verde dei campi al grigio dei capannoni. Chi in questi anni ha espresso allarme per il rischio inondazioni è stato, nella migliore delle ipotesi, tacciato di essere una “Cassandra” (dimenticando che, purtroppo per i Troiani, Cassandra aveva visto giusto). La situazione rischia di diventare ulteriormente drammatica nel Basso Vicentino, un’area a sud di Vicenza appena sopra il livello del mare, ricca d’acqua e destinata a diventare, grazie alla nuova autostrada in costruzione, un’immensa teoria di capannoni e depositi (nuove zone industriali tra Longare e Noventa, momentaneamente sospeso il progetto della Despar che avrebbe ricoperto un’area corrispondente a duecento campi, il nuovo poligono di tiro ad Albettone, oltre ad una infinità di caselli, raccordi, strade di collegamento, rotatorie, distributori…). Lo spettacolo lacustre di Montegalda, Montegaldella e Cervarese in seguito alla penultima alluvione dovrebbe aver mostrato cosa ci riserva il futuro se si continua a cementificare.
Per Vicenza e Caldogno (uno dei paesi più devastati a nord della città), dove l’acqua aveva toccato livelli mai raggiunti, appariva evidente che un elemento decisivo era rappresentato dalla nuova base americana Dal Molin. Per chi non conosce la zona, va ricordato che alcuni fiumi a carattere torrentizio scendono dalle alte montagne (Carega, Sengio Alto, Pasubio, Novegno, Pria Forà. Summano…) al confine tra la provincia di Vicenza e quella di Trento raccogliendo acque copiose provenienti dalle piogge e dalle nevi. Tra questi il Leogra, l’Orolo, il Timonchio e l’Astico (quello che poi confluisce nel Tesina). Le acque scorrono anche in profondità, attraverso i depositi di ghiaia, tornando in superficie nelle risorgive come il Bacchiglioncello che sgorga a Novoledo. Diventa poi Bacchiglione prima di entrare a Vicenza dove riceve l’Astichello e, dopo Porta Monte, il Retrone e la roggia Riello. Dopo pochi chilometri, a San Piero Intrigogna, incontra il Tesina dove è appena confluita la roggia Caveggiara. Insomma. un ambiente dove l’acqua non manca, anche per la presenza di una falda acquifera tra le più grandi d’Europa. Forse non è stato un caso che gli Usa abbiano tanto insistito (come confermano documenti divulgati da Wiki Leaks) per appropriarsi del Dal Molin che “poggia” (galleggia?) sulla falda stessa.
I lavori al Dal Molin (attorno a cui scorre il Bacchiglione alimentando, insieme alle piogge, la falda) hanno comportato, oltre alla cementificazione di una vasta area, uno spostamento del fiume, l’ampliamento dell’argine sul lato della base e l’inserimento nel suolo di un enorme quantità di pali in cemento (vere e proprie palafitte, stile Venezia) che, molto probabilmente, hanno funzionato come una “diga” sotterranea costringendo l’acqua a fuoriuscire. Con i risultati che sappiamo.
In origine i pali (mezzo metro di diametro) dovevano essere solo ottocento, ma alla fine ne sono stati utilizzati circa tremila. Piantati fino a18 metri di profondità.
Sembra che inizialmente i pali non reggessero proprio per la presenza della falda acquifera. Sarebbe interessante scoprire in che modo siano riusciti poi a piantarli.
Un’altra considerazione sulla nuova autostrada a sud di Vicenza (A31, Valdastico Sud), costruita in quattro e quattro-otto, dopo anni di polemiche e contenziosi, nonostante i vincoli paesaggistici. Osservando una carta topografica salta agli occhi come sia destinata a diventare un ottimo raccordo tra le varie basi statunitensi. Se la Ederle era già prossima al casello di Vicenza Est, la nuova base Dal Molin è comodissima alla Valdastico Nord. Restava defilata solo la base Pluto, a Longare, ma qui ora sorgerà un casello. Un altro casello verrà costruito ad Albettone, dove è previsto un poligono di tiro che utilizzeranno soprattutto i militari.
Altra ipotesi. Si sa che l’autostrada finisce in provincia di Rovigo, praticamente nel nulla. Però in quel “nulla” c’è una vecchia base militare abbandonata. Scommettiamo che non resterà tale per molto? Tra cementificazione, militarizzazione, sterminio di animali…tutto si tiene.
Parafrando quanto viene attribuito a Seattle “quando avrete ammazzato l’ultima nutria, sradicato l’ultima siesa (siepe, in veneto), ricoperto di cemento l’ultima prato, vi accorgerete di non poter mangiare il denaro e affogherete (profetico! ndr) nei vostri rifiuti”.
Gianni Sartori