Essi sono obbligati a «prevenire il reclutamento, l’organizzazione, il trasporto e l’equipaggiamento di individui che si recano in altri Stati allo scopo di pianificare, preparare o attuare atti terroristici, oppure di fornire o ricevere addestramento terroristico e finanziamenti per tali attività». A tale scopo tutti gli stati dovranno varare apposite legislazioni, intensificare i controlli alle frontiere, perseguire e condannare i terroristi (o presunti tali), accrescendo la cooperazione internazionale, anche attraverso accordi bilaterali, e lo scambio di informazioni per identificare i sospetti terroristi.
La risoluzione esprime in generale «preoccupazione per la costituzione di reti terroristiche internazionali», lasciando ogni Stato libero di stabilire quali siano i gruppi terroristici da combattere: da qui il voto favorevole di Russia e Cina. Subito dopo, però, la risoluzione sottolinea «la particolare e urgente esigenza di prevenire il sostegno a combattenti terroristi stranieri associati allo Stato islamico dell’Iraq e del Levante (Isis)».
Il ministro degli esteri russo Lavrov, pur senza nominare gli Stati uniti, ha dichiarato al Consiglio di sicurezza che le organizzazioni terroristiche si sono rafforzate in Medio Oriente, Africa e Asia centrale «dopo l’intervento in Iraq, il bombardamento della Libia, l’appoggio esterno agli estremisti in Siria», accusando di fatto Washington di aver favorito la formazione dei gruppi terroristi e dello stesso Isis (come abbiamo ampiamente documentato su questo giornale). Il ministro degli esteri cinese Wang Yi ha sottolineato che «le azioni militari devono conformarsi alla Carta delle Nazioni unite» e che «devono essere evitati i doppi standard» (ossia i due pesi e le due misure).
Approvando la risoluzione, Mosca e Pechino hanno però di fatto permesso a Washington di usarla quale motivazione «legale» per l’azione militare lanciata in Medio Oriente che, diretta formalmente contro l’Isis, mira alla completa demolizione della Siria, finora impedita dalla mediazione russa in cambio del disarmo chimico di Damasco, e alla rioccupazione dell’Iraq. Lo conferma il fatto, che gli attacchi aerei lanciati in Siria dagli Stati uniti, con il concorso di Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, si concentrano sulle raffinerie modulari e altri impianti petroliferi siriani, con la motivazione che sono sfruttati dall’Isis. In base alla stessa motivazione, gli Usa possono distruggere l’intera rete di industrie e infrastrutture siriane per far crollare il governo di Damasco.
Dietro l’apparente unanimità con cui è stata approvata la risoluzione al Consiglio di sicurezza, si nasconde un confronto sempre più acuto Ovest-Est innescato dalla strategia statunitense. Nel discorso pronunciato all’Assemblea generale dell’Onu, prima della riunione del Consiglio di sicurezza, il presidente Obama mette «l’aggressione russa in Europa» sullo stesso piano della «brutalità dei terroristi in Siria e Iraq», sottolineando che «le azioni della Russia in Ucraina sfidano l’ordine del dopo guerra fredda», riportandoci «ai giorni in cui le grandi nazioni calpestavano le piccole perseguendo le loro ambizioni territoriali» (da che pulpito viene la predica!). Per questo «rafforzeremo i nostri alleati Nato e imporremo un costo alla Russia per la sua aggressione».
Ribadisce quindi, rivolgendosi indirettamente alla Cina, che «l’America è e continuerà ad essere una potenza del Pacifico», dove promuove «pace e stabilità». Dove in realtà sta spostando forze e basi militari in funzione di «contenimento» della Cina, che si sta riavvicinando alla Russia.
Un confronto tra potenze nucleari, accelerato dalla corsa al riarmo lanciata dal presidente Obama (v. il manifesto del 24 settembre), che riceve ora il sostegno di un altro Premio Nobel per la pace, Lech Walesa. Come salvaguardia contro la Russia, ha dichiarato mentre la Nato iniziava una grande esercitazione in territorio polacco, «la Polonia deve procurarsi armi nucleari».