by redazione | 28 Settembre 2014 19:32
Contiene qualcosa di sconvolgente (nel senso letterale di «sconvolgere») il principio contenuto nell’emendamento del governo al Jobs Act sulle cosiddette «tutele crescenti», da applicare ai nuovi contratti di lavoro subordinato. Leggiamo: «(…) il Governo è delegato ad adottare, (…) in coerenza con la regolazione dell’Unione europea e le convenzioni internazionali, (…) la previsione, per le nuove assunzioni, del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio».
Da questa disposizione si ricava che, nella nuova versione del welfare italico prospettata dal governo, sarà l’anzianità di servizio a determinare il livello di godimento dei diritti costituzionali da parte dei lavoratori, dunque, nella generalità dei casi, l’età dello stesso lavoratore.
Nel nostro ordinamento, solo la maggiore età costituisce uno spartiacque nella storia personale di un individuo, delineando una linea di confine tra un prima e un dopo nella scala di godimento dei diritti sanciti dalla Costituzione. Beninteso, un minore non ha diritto di voto, non ha facoltà piena di porre in essere atti negoziali, ma non per questo è passibile di soprusi e di discriminazioni. Anzi, c’è una tutela rafforzata che li riguarda, in quanto «soggetti deboli».
Nello schema proposto dal governo in materia di rapporti di lavoro, c’è invece un rovesciamento del principio: più sei giovane (in Italia si può lavorare già a 13 anni) meno tutele e diritti avrai.
Nel caso specifico dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, e segnatamente della reintegra in caso di licenziamento senza giusta causa di cui molto si parla, questo capovolgimento di scenario implicherebbe una vergognosa correlazione tra giovane età e possibilità di subire licenziamenti arbitrari o, addirittura, discriminatori, anche licenziamenti funzionali al non raggiungimento della soglia di «anzianità di servizio» prevista dalla legge per l’accesso al godimento di alcuni diritti.
Abile però il governo, e il premier in particolare, a presentare la «riforma» come un rimedio al regime di apartheid che oggi vigerebbe nel mondo del lavoro, nel senso che la fattispecie denunciata sarebbe proprio quella che si andrebbe a concretizzare nel momento in cui venisse approvata la nuova disciplina in materia di rapporti di lavoro proposta dall’esecutivo.
Se davvero il governo avesse in mente di eliminare le discrepanze esistenti tra lavoratori «tradizionali» e lavoratori «atipici», certamente non inizierebbe a occuparsi dei diritti dei primi. Piuttosto metterebbe mano alla giungla di contratti che negli anni ha generato il mare di precariato in cui sono immersi i secondi. Si porrebbe, in sostanza, il problema di estendere le tutele a chi oggi non ce l’ha, non a livellarle verso il basso, istituzionalizzando nuove forme di discriminazione su base generazionale.
Che c’entra il volersi occupare di «Marta», che «non ha la possibilità di avere il diritto alla maternità», col voler togliere diritti a «Francesca», che invece quel diritto ce l’ha insieme all’altro di poter ricorrere contro un licenziamento senza giusta causa? Ma soprattutto, qual è il modello di società che si prospetta alle «Marta» d’Italia? Quello in cui chi è giovane e precario oggi sarà un vecchio povero domani, che per giunta dovrà «guadagnarsi» con l’anzianità di servizio (di servigi?) l’accesso al godimento di diritti fondamentali?
C’è una Costituzione, tuttora vigente mi sembra, che all’articolo 3 sancisce: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, (…)». Poi dice anche che la Repubblica ha il compito di «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, (…)».
Ecco, «pari dignità» e «rimozione degli ostacoli». Esattamente il contrario di ciò che il governo sta prospettando.
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