Svelati i volti dietro i cappucci ecco i prigionieri di Abu Ghraib
FRA il 2006 e il 2007 Chris Bartlett, fotografo di cose di moda, andò ad Amman e a Instanbul a fotografare in bianco e nero i volti di persone che erano state torturate ad Abu Ghraib e rilasciate senza che venisse mossa loro alcuna accusa. Oggi, dieci anni dopo la diffusione delle immagini di tortura da parte della Cbs, i ritratti sono esposti a New York, col proposito di restituire ai torturati la loro umana dignità.
Quando Bartlett realizzò il suo progetto, non poteva immaginare l’effetto che avrebbe suscitato nel contesto dei nostri giorni. Non solo perché la ferita di Abu Ghraib resta aperta, nella memoria della gente e nei tribunali americani, dove sono centinaia gli ex detenuti che hanno intentato causa ai responsabili delle torture, militari e società d i contractor .
Un giudice di New York, Alvin Hellerstein, ha avvertito di voler rendere pubbliche oltre duemila fotografie di abusi su detenuti in Iraq e in Afghanistan, a meno che la Difesa fornisca una motivazione dettagliata del pericolo che la pubblicazione comporta per la sicurezza. Una legge del 2009 consentì, in deroga al “Freedom of Information Act”, di proibirne la pubblicazione per tre anni. Il governo ha chiesto di prorogare il divieto, senza convincere il giudice, per il quale le preoccupazioni per la sicurezza avanzate durante l’occupazione dell’Iraq non sono più attuali. Il New York Times ha ammonito che la minaccia alla sicurezza degli Stati Uniti non viene dalla pubblicazione degli abusi commessi dai loro uomini, e tanto meno dalla loro punizione, bensì dagli abusi stessi. Era inevitabile che si levasse l’argomento opposto: che l’offensiva del sedicente Stato Islamico avrebbe piegato alla propria propaganda altre immagini di torture commesse da americani (e da loro alleati), tali oltretutto da confermare che si trattasse di comportamenti sistematici e ispirati dall’alto. Si confrontano due idee opposte del senso di responsabilità: una che vuole proteggersi col silenzio e una che rivendica la trasparenza per contrapporsi a un nemico che ostenta la ferocia.
Sta qui l’efficacia imprevista e turbante che hanno i ritratti di Bartlett. Nelle più ributtanti immagini di Abu Ghraib i torturatori, giovani donne e uomini impegnati a immortalarsi a viso scoperto e divertito, umiliavano creature ridotte a corpi denudati e visi insaccati. «La prima cosa che fecero, fu spogliarmi », dicono quei superstiti. L’oltraggio sessuale aveva bisogno di essere anonimo, di farne dei sottoumani derisi e braccati dai cani. La prima cosa che al fotografo spetta di fare, per riumanizzare gli zimbelli, è di rivestirne i corpi e riestrarre dal sacco i volti. I suoi sono ritratti a mezzo busto, sufficienti ad accennare la decenza degli abiti civili di ciascuno, ma tesi a restituirli alla loro fisionomia e profondità di persone.
Nel momento in cui guardate le facce, così inconfondibilmente diverse — del resto bisogna esser bravi, a fare i fotografi di moda — è inevitabile che le sovrapponiate, capovolte, alle immagini delle decapitazioni che fanno da manifesto alla sagra del califfato. Là i condannati devono recitare la parte dei detenuti di Guantanamo e di Abu Ghraib, e ne indossano la divisa, ma hanno il viso scoperto: incappucciato è il boia. Il raffronto rende più netta e dolorosa la sensazione, difficile da esplorare a fondo, che veniva dalle immagini delle decapitazioni. Lì a turbare fino all’angoscia e alla rimozione sono i visi risoluti, intensi, che sembrano aver deciso ciascuno a suo modo, quali che siano le parole ultime che accettano di pronunciare, di padroneggiare la propria orribile morte.
La forza di quei video presso di noi non sta tanto nella barbarie della macelleria: erano state messe in rete dai vanitosi fanatici dello Stato Islamico vaste vedute di teste di militari di Assad e altri nemici decollate e impalate nei giardinetti pubblici. Sta nella domanda che affiora, e che preferiamo non seguire, sull’eventualità che tocchi a noi, e come riusciremmo a tener alta la faccia, e che cosa diventerebbe la nostra faccia una volta spiccata.
Non è solo perché siamo “occidentali” che, guardando le oscene immagini di Abu Ghraib, ci interrogavamo piuttosto sull’eventualità di trovarci nei panni delle soldatesse e dei soldati torturatori che non nei corpi nudi e sfacciati dei prigionieri, e guardando i video dello Stato Islamico ci figuriamo nei giornalisti e nei cooperanti vittime del coltello, e non nel pupazzo nero che le maneggia.
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