Stop ai fondi Ue per la fame colpa di Germania e Italia “Così 4 milioni di persone adesso sono senza aiuti”

Stop ai fondi Ue per la fame colpa di Germania e Italia “Così 4 milioni di persone adesso sono senza aiuti”

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DOPO una lunga carriera come maestra, di recente Cristina Danese ha iniziato a notare qualcosa che le ricorda l’infanzia: bambini affamati fra i banchi di scuola, a Milano. Quello che questa insegnante non sa è che la malnutrizione che grava su milioni di persone nell’Italia del 2014 non è solo frutto della crisi più lunga nella storia nazionale. È anche uno scandalo politico, consumato nel silenzio, che chiama in causa molti protagonisti: la burocrazia e il governo, lenti nel chiedere a Bruxelles le centinaia di milioni di euro che spettano all’Italia per la lotta contro la fame; il governo precedente, che ha dedicato poco più che spiccioli all’emergenza alimentare proprio mentre questa stava esplodendo e gli aiuti europei stavano per bloccarsi; e il governo di Berlino, impegnato a decurtare ogni sostegno della Ue agli indigenti nel momento in cui l’Europa brucia nella recessione e nei sacrifici chiesti ai cittadini per uscirne.
Cristina Danese vive a Milano dal 1960, quando arrivò dal Veneto più o meno alla stessa età che hanno i suoi allievi di quest’anno. E poiché ricorda la cocente vergogna di sua madre quando lei al mattino doveva andare a scuola senza aver cenato la sera prima, cerca di muoversi con tatto. Dalla mensa dell’istituto Rodari di Greco, a Milano, ogni giorno ha iniziato a riportare in classe sacchetti di pane e frutta e li offre in modo casuale. «Sono avanzati – dice – qualcuno li vuole portare a casa?». Sa che sempre gli stessi quattro, tutti figli di italiani, alzeranno la mano.
Mille chilometri più a sud il 2014 invece era iniziato bene per Rosetta De Luca, di Cosenza. Aveva presentato domanda per una casa popolare nel 1985 e quest’anno finalmente il Comune l’ha chiamata per darle l’appartamento dove ora vive con tre dei suoi cinque figli. È a due passi dal magnifico Duomo medievale. Subito dopo però si è presentato un problema: improvvisamente la signora De Luca ha smesso di ricevere i pacchi del Banco alimentare, la più grande piattaforma italiana di distribuzione di cibo agli indigenti. Di solito le buste contenevano pasta, legumi, biscotti, olio, sugo, latte. Per una disoccupata di 48 anni come la signora De Luca, con due figli grandi ma senza lavoro, nessun diritto a un sussidio e una bambina di dieci anni, quelle consegne rappresentavano metà della dieta quotidiana. «Magari mangiavo una volta al giorno – dice – ma i miei figli sempre due». Poi sono iniziati i quattro mesi durante i quali non ha visto nemmeno un pacco, spiega sedendo al caffè dietro la cattedrale. Sua figlia Chiara la ascolta concentrata, assaporando un gelato alla nocciola. «Carne è una vita che non ne mangio e lei anche – aggiunge, indicandola con lo sguardo – Ci farebbe bene, siamo anemiche».
La fame in Italia nel 2014 è un’epidemia non vista, ma non invisibile. È una piaga evitabile, ma non evitata: a Roma, a Bruxelles e a Berlino ha radici e omissioni che vanno aldilà del disastro che sta rendendo l’economia italiana oggi di 230 miliardi di euro più piccola di come sarebbe se tutto fosse continuato al ritmo, lento, tenuto dal Paese fino al 2007. Nella richiesta di aiuti che il governo ha spedito a Bruxelles questo mese si legge: «La quota di individui in famiglie che non possono permettersi un pasto proteico adeguato ogni due giorni è cresciuta dal 12,4% del 2011 al 16,8% del 2013». Quest’anno sta salendo ancora, stima il Banco alimentare. Sono i numeri di un collasso consumato nella distrazione del resto del Paese: secondo l’Istat le persone in povertà assoluta in Italia, cioè incapaci di sostenere la spesa minima mensile per alimentazione, casa, vestiti, sono passate da 2,4 milioni del 2007 a sei milioni nel 2013. Praticamente nessuno di loro è stato raggiunto dal bonus fiscale da 80 euro al mese deciso dal governo. Secondo l’Agea, l’agenzia del governo per l’aiuto alimentare, gli assistiti con cibo in Lombardia sono aumentati del 26% in quattro anni a 330 mila del 2013: insieme farebbero la seconda città della regione dopo Milano. Nel Lazio sono 425 mila, più 30% nello stesso quadriennio. E l’anno scorso il Banco alimentare, che copre meno di due terzi degli assistiti in Italia, ha dato da mangiare a duecentomila bambini fra zero e cinque anni: è il doppio rispetto al 2007, in un’età durante la quale la malnutrizione può imprimere danni irreversibili allo sviluppo mentale.
Chiara, figlia di Rosetta De Luca, a scuola ha ottimi voti e da grande vuole fare la maestra. Ma non è difficile capire perché sua madre ha smesso di ricevere gli aiuti e ora la manda a scuola senza poterle dare proteine a sufficienza. In tutt’Italia le scorte sono sparite, proprio ora che servirebbero di più. Il magazzino del Banco alimentare della Calabria è quasi completamente vuoto. «Abbiamo dovuto dimezzare quantità e frequenza delle distribuzioni mentre le richieste continuano ad aumentare – dice Giovanni Romeo, il responsabile – Per soddisfare la domanda per intero, dovrei avere almeno tre volte tante risorse». Mentre Romeo parla, una mattina di fine settembre, un muletto sta caricando un pianale di pesche nettarine che erano destinate alla Russia ma ora sono bloccate dalle sanzioni. In un angolo si notano scatole di biscotti con le dodici stelle dell’Unione europea e la scritta: ”Aiuto Ue. Prodotto non commerciabile”. Presto finiranno anche queste, perché le provviste di quest’anno sono falcidiate da una vicenda che ha molti responsabili in Italia e in Europa e pochi innocenti.
Dal 1987 l’aiuto alimentare nell’Unione europea era assicurato dalla Politica agricola comune. Bruxelles comprava le eccedenze, o sussidiava una produzione supplementare, e distribuiva gratis le derrate ai ministeri dell’Agricoltura, i quali a loro volta le passavano alle associazioni caritative. Questo sistema si è interrotto per una sentenza della Corte di giustizia europea nel 2011 prodotta da un ricorso contro gli aiuti presentato dalla Germania e sostenuto da Svezia, Austria, Olanda, Gran Bretagna, Danimarca, Repubblica Ceca. Come si nota dalle dichiarazioni alla Corte, rese nel momento più drammatico della crisi del debito, questi governi hanno sostenuto che l’aiuto alimentare agli indigenti non spetta all’Europa ma ai singoli governi e agli enti locali con i propri cittadini: ciascuno faccia da sé, con i propri sistemi di welfare state. Negli Stati Uniti alla Grande depressione degli anni ’30 si rispose con i “Food Stamps”, i buoni che ancora oggi garantiscono che chiunque abbia almeno da mangiare. L’Italia oltre 80 anni dopo non ha niente del genere, il sostegno agli indigenti può essere zero, e l’Europa ha risposto alla Grande Recessione con una lite sul cibo in Corte di giustizia.
Il programma contro la fame è stato cancellato dalla sentenza di Lussemburgo ma, nella distrazione generale, lo scontro è proseguito. Riducendo altri piani, a parità di spesa totale, la Commissione europea ha ricavato spazio per gli aiuti alimentari nei fondi strutturali. Anche questa proposta è stata bloccata dalla coalizione dei Paesi nordici, Germania in testa, poi si è trovato un compromesso: da quest’anno fino al 2020 ci saranno 3,5 miliardi di euro per il sostegno materiale ai poveri, di cui circa 90 milioni l’anno per l’Italia, e ogni governo provvederà a usarli per comprare beni come cibo, vestiti, libri scolastici; ma i Paesi che hanno già un welfare nazionale efficiente, quelli del Nord, potranno in parte spenderli in modo diverso.
È qui che gli intoppi della politica e della burocrazia in Italia hanno prodotto un passaggio a vuoto in cui, quasi certamente, quest’anno milioni di persone (4 si stima) si sono viste ridurre i pacchi alimentari o le porzioni alle mense di carità. Il vecchio sistema europeo di aiuti in natura infatti è stato chiuso con la fine del 2013, quello nuovo di aiuti finanziari è uscito in Gazzetta Ufficiale della Ue il 12 marzo 2014. Ora spettava al ministero del Lavoro presentare subito un “piano operativo” a Bruxelles sull’impiego di questi fondi, in modo da poterli ricevere al più presto. Il tempo conta. Per evitare un arresto del flusso di cibo agli indigenti, la Francia per esempio ha preparato il proprio programma già da fine 2013, lo ha subito presentato ed è partita con gli anticipi di cassa, senza interruzioni. Anche Paesi con problemi di povertà come la Polonia ha mandato i piani a Bruxelles in tempi stretti.
In Italia invece si è costituito un “tavolo” a fine aprile guidato da Giuliano Poletti, il ministro del Lavoro, con sindacati, enti caritativi, Regioni, grandi città, l’associazione dei Comuni e vari altri soggetti. La disponibilità di cassa e non più di pasta, scatolame o biscotti dall’Europa aveva prodotto una novità: le amministrazioni più a corto di soldi per l’assistenza sociale, Comuni come Palermo, Genova o Napoli, per la prima volta si sono messi a competere con gli enti caritativi per ricevere e intermediare i sussidi di Bruxelles.
Questa concorrenza per le risorse ha ritar- dato tutto e il flusso di aiuti dall’Europa, cioè gran parte del cibo per milioni di poveri in Italia, si è interrotto. L’Italia non è il solo caso in Europa, è vero, anche se pochi altri Paesi hanno una simile crescita della povertà. Il blocco dei sussidi era talmente prevedibile che il governo di Enrico Letta aveva persino creato un fondo per garantire gli approvvigionamenti di quest’anno, ma non è servito: la Legge di stabilità lo finanzia con appena 10 milioni, un decimo delle somme necessarie.
Ora il piano italiano, dopo una riscrittura in estate, è definitivamente partito per Bruxelles a inizio settembre. Gli anticipi di cassa sono scattati da agosto ma servono ancora i bandi e gli appalti per prodotti come pasta o zucchero. I primi alimenti per chi ne ha urgente bisogno arriveranno non prima di fine novembre, nove mesi in ritardo.
Nel frattempo Giovanni Romeo, a Cosenza, raziona le dosi dal suo deposito: per i suoi 135 mila assistiti, ha scorte in media per un giorno. «Qui non c’è uno tsunami o una bomba d’acqua – osserva nel magazzino vuoto – ma un silenzio assordante». A Milano, zona Gratosoglio, una madre di sei figli, Nunzia Pollo, 36 anni, disoccupata come il marito, riceve aiuti solo grazie a Carlo Marnini, un imprenditore del quartiere che raccoglie in proprio prodotti in dono dai clienti negli alimentari della zona. Marnini riesce a rifornire solo metà delle 160 famiglie che gli chiedono soccorso, dice, dunque decide lui chi gli sembra più bisognoso. Nunzia Pollo per esempio riceve solo un assegno da 900 euro ogni sei mesi dal Comune, nient’altro: cassa integrazione, assegno di mobilità o social card sono scadute o sono state rifiutate.
Questa donna va fuori di sé quando vede che il camion del Banco alimentare porta cibo al convento vicino a casa sua, dove vivono alcuni rifugiati dalla Siria e degli stranieri arrivati da Lampedusa. «Questa cosa arrivo a odiarla», confessa. Anche Cristina Danese, la maestra della Rodari di Milano, sa che la fame può diventare incendiaria se si presenta un politico pronto a usarla per i propri fini. Distribuendo alle famiglie degli allievi il cibo della mensa di scuola, Danese viola la legge. Non è la cosa che la preoccupa di più: «Aspetto solo che qualcuno mi denunci».



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