by redazione | 20 Settembre 2014 10:45
Il referendum sull’’indipendenza della Scozia è stato bocciato dagli elettori. La sconfitta è netta: 55,3% per il «sì», contro il 44,7% dei «no». Plaudono Downing Street e i vertici della Ue, preoccupati di un effetto domino in molti altri paesi, a cominciare dalla Spagna, dove i catalani intendono cimentarsi nel medesimo esercizio entro la fine dell’anno. A Bruxelles non erano però inquieti solo per questo: sul banco degli imputati, quelli dello Scottish National Party di Alex Salmond avevano messo anche le politiche all’insegna dei tagli e del rigore che a Londra sono gestite dal conservatore David Cameron, ma che nel resto dell’Unione, a cominciare dalla Germania, trovano il plauso anche delle grandi-coalizioni tra centrodestra e centrosinistra.
Fin qui il risultato, già ampiamente celebrato del voto della Scozia. Ma se si vuole capire qualcosa di più di come siano andate davvero le cose e, soprattutto, di quale potrebbe essere il lascito, magari non immediato, ma certo visibile nel lungo periodo di questo referendum, si dovranno analizzare in dettaglio dati e numeri. Emerge così una prima constatazione: all’inizio della campagna elettorale, i sondaggi attribuivano ai «sì» non più del 25%, giovedi sono stati invece poco meno del doppio, oltre un milione e mezzo di consensi. Una progressione che lo storico scozzese Keith Dixon non esita a definire come «qualcosa di impressionante», anche perché frutto di una svolta profonda dell’elettorato, a partire dalle nuove generazioni.
L’istantanea più allarmante per il fronte per altro vittorioso del «no», che sotto lo slogan better together (meglio insieme) ha riunito i tre maggiori partiti della scena britannica — conservatori, laburisti e liberal-democratici -, l’ha scattata all’uscita dai seggi l’autorevole LordAshcroftPolls che ha fissato nel 71% degli elettori più giovani, addirittura compresi tra i 16 e i 17 anni — l’età minima per votare era 16 anni -, il record dei favorevoli all’indipendenza. Lo stesso istituto ha anche regalato una gran brutta sorpresa ai laburisti, spiegando come oltre il 37% dei loro simpatizzanti abbia scelto la via della secessione in aperto contrasto con la consegna di voto stabilita dai vertici del New Labour che, per inciso, hanno da queste parti una delle loro roccaforti elettorali, al punto da aver inviato, solo nelle ultime elezioni politiche, qualcosa come 49 deputati a Westminster dalle circoscrizioni scozzesi.
Ma il referendum ha evidenziato anche altre linee di frattura interne alla società locale che non è dato sapere quanto facilmente potranno rimarginarsi. Se infatti ad Edimburgo, capitale amministrativa del paese e un po’ fiore all’occhiello della nuova Scozia emergente, figlia del petrolio del Mare del nord, hanno prevalso gli unionisti, a Glasgow, l’unica vera metropoli scozzese, un tempo simbolo delle lotte sociali e della conflittualità operaia, sfigurata dalla crisi economica già da tempo, hanno invece vinto gli indipendentisti. Più in generale, mentre la middle-class si è fatta convincere dalle sirene, e dalle minacce, di Londra, tra operai, precari e disoccupati — per altro coloro che avrebbero dovuto mostrarsi più sensibili alla paura più volte evocata strumentalmente da Cameron, quanto alla tenuta del sistema sanitario e di welfare di una ipotetica Scozia indipendente — il «sì» ha nettamente prevalso.
Ora, come annunciato negli ultimi giorni di campagna per cercare di recuperare in extremis una parte dell’elettorato, il governo britannico dovrà varare la promessa devolution economica che prevede un (ulteriore) travaso di poteri dal Regno Unito al parlamento di Edimburgo in materia di tasse, welfare, sanità, lavoro e gestione dei proventi che derivano dallo sfruttamento dell’oro nero scozzese. Una riorganizzazione, pressoché “federale” del paese che coinvolgerà anche il Galles e l’Irlanda del Nord.
In realtà, prima che optassero decisamente per la formula secca del referendum, era proprio questa la richiesta che avevano avanzato i nazionalisti di Alex Salmond. Proprio il leader dell’Snp, pur ammettendo la sconfitta, parla ora dell’indipendenza come di «un processo, non un singolo evento», ammonendo sul fatto che «la nuova generazione potrebbe farcela». In fondo, gli fa eco Keith Dixon, è la terza volta che gli scozzesi votano sullo stesso quesito: l’hanno fatto nel ’79 e nel ’97 e «hanno già ottenuto un parlamento tutto loro e, ora, una larghissima autonomia». Questo senza contare che gli indipendentisti crescono ad ogni voto e che già oggi oltre metà della popolazione del nord è contro l’austerity praticata da Londra.
Non è che, sotto sotto, il referendum l’hanno vinto loro?
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