Raid, sì dei paesi arabi A Obama l’appoggio degli “alleati riluttanti”
IL MESSAGGIO è chiaro, sinistro, non si presta a equivoci. Barack Obama «dichiara la guerra» allo Stato Islamico e lo Stato islamico risponde con un’altra decapitazione. Il califfo Al-Baghdadi fa sapere che lui non si lascia intimidire. Le esecuzioni dei due giornalisti americani, James Foley e Steven J. Sotloff, equivalevano a una sfida, erano provocazioni: l’esecuzione del cittadino britannico David Haines, un operatore umanitario, è un avvertimento a Londra, ma il monito brutale è destinato anche a tutte le altre capitali, occidentali e orientali, pronte a partecipare alla grande alleanza anti-jihadista, di cui si discuterà oggi a Parigi. Il boia ha avvertito che ha un’altra vittima di riserva, il britannico Alan Henning.
La morte di David Haines, colpevole di aver voluto aiutare la popolazione siriana in preda alla guerra civile, arriva come una staffilata sull’ampio e confuso schieramento anti jihadista atteso sulle rive della Senna. Dovrebbe essere uno stimolo ad affrettare i tempi di un intervento che si annuncia complesso. Sono in molti a condividerne la necessità e l’urgenza, ma non pochi esitano a impegnarsi militarmente in attacchi aerei e ancor più a terra.
Durante il periplo mediorientale il segretario di Stato, John Kerry, ha raccolto l’aperta adesione di dieci paesi arabi favorevoli all’operazione tesa a «distruggere» lo Stato islamico. Questo non significa che siano tutti pronti a mandare la propria fanteria o a bombardare le province siriane e irachene controllate dai jihadisti del califfato autoproclamato da Al-Baghdadi. Il contributo a una campagna militare può limitarsi a fornire addestratori, armi, aiuti economici, aerei di ricognizione, agenti di intelligence, tende per la croce rossa, medicinali. Visitando la Giordania, la Turchia, l’Egitto, gli emirati del Golfo e soprattutto l’Arabia Saudita, il segretario di Stato ha trovato un’ampia disponibilità politica ma una scarsa voglia di essere implicati direttamente sul piano militare.
Alla conferenza di Parigi, il cui tema è «la pace e la sicurezza in Iraq», il presidente francese François Hollande e il presidente iracheno Fuad Massun riceveranno un numero ancora imprecisato di ministri degli esteri. Sembra poco meno di quaranta. Dei quali dovrà essere misurata la disponibilità dei rispettivi paesi a condividere i rischi del conflitto contro lo Stato islamico. Rischi che non sono soltanto di natura militare. Sul piano religioso o semplicemente emotivo l’alleanza con l’Occidente contro il califfato, sia pur poco credibile secondo le grandi istituzioni islamiche, può urtare la sensibilità di parte della popolazione araba.
In quanto ai dubbi la stessa Francia, nonostante l’esempla- re attivismo (che ha portato nelle ultime ore lo stesso capo dello Stato in visita a Bagdad) sarebbe incerta sulla possibilità di estendere le incursioni
aeree sulla Siria. Come per altri paesi europei esiste il problema della legalità internazionale. La quale suscita perplessità in molte capitali. Berlino esclude ogni partecipazione. Più prudenti altri europei studiano partecipazioni non troppo compromettenti. Non è esclusa la possibilità che la Russia, di cui si annuncia la presenza a Parigi, possa porre un veto al Consiglio di Sicurezza sull’estensione del conflitto alla Siria. Mosca è alleato del regime siriano di Bashar Al Assad e quindi si oppone allo Stato islamico suo nemico, non esitando a offrire aiuti al governo di Bagdad. Il presidente russo vorrebbe che Assad venisse riconosciuto come un membro possibile della grande coalizione anti-jihadista.
La stessa richiesta è avanzata dall’Iran. Un altro enigma. Teheran arma e guida le milizie sciite contro lo Stato islamico sunnita, per sostenere, come gli americani, il governo di Bagdad, ma è al tempo stesso alleato del regime di Damasco, con il quale gli americani non vogliono intese. Per non parlare dei sauditi che in quanto sunniti considerano l’Iran il cuore e l’animatore degli avversari sciiti. Quindi il principale nemico di cui non si può accettare la presenza a Parigi. Paesi incerti sulla natura di un eventuale impegno sono in particolare il Qatar, che ha aiutato non pochi movimenti islamisti, e la Turchia che ha fatto altrettanto, ma che teme soprattutto le conseguenze essendo troppo vicina alle province roventi dello Stato Islamico.
In questo groviglio di interessi, di alleanze mutevoli secondo le situazioni, un punto positivo è la formazione a Bagdad di un governo, guidato dal pragmatico Haidar al Abadi. Il quale tenta di conciliare la maggioranza sciita con le minoranze sunnite. Il governo di Al Abadi legittima l’intervento della grande coalizione in Iraq. Ed è proprio quel che invece manca in Siria, dove non si vuole trattare con Bashar Al Assad. E lui per ripicca respinge ogni intervento straniero, anche se rivolto contro i suoi avversari. Mosca rafforza la sua posizione.
Nel fronte opposto si annuncia la formazione di un’altra coalizione. Secondo il Syrian Observatory for Human Rights i gruppi jihadisti a lungo concorrenti avrebbero firmato alla periferia di Damasco un patto di non aggressione. Al Nusra, gruppo legato ad al Qaeda, fino a poco tempo fa in aperta ostilità con lo Stato islamico, ha sottoscritto una tregua destinata durare fino alla distruzione del regime “Nussary”, espressione spregiativa per indicare gli alawiti, nucleo centrale del regime di Damasco. Questo rende più complicata la tattica americana che non esclude di rafforzare i gruppi islamisti contrari allo Stato islamico.
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