Il prossimo passo di Obama: bombe sulla Siria

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Bombe anche sulla Siria: l’allargamento della mis­sione anti-Isis potrebbe tra­dursi in raid della Casa Bianca con­tro le posta­zioni jiha­di­ste anche al di là del con­fine con l’Iraq. I dubbi – forte è il timore che così si aiuti indi­ret­ta­mente il pre­si­dente siriano Assad – sem­brano essere scom­parsi: lo rive­lano fonti gover­na­tive secondo cui il pre­si­dente Obama sarebbe pronto ad ordi­nare ai jet mili­tari di sgan­ciare bombe in Siria (dove le mili­zie di al-Baghdadi con­trol­lano intere comu­nità a nord est) per­ché – avrebbe detto il pre­si­dente – l’Isis va con­si­de­rato come un’organizzazione unica e non gruppi sepa­rati da un confine.

La fuga di noti­zie è giunta men­tre Obama pre­pa­rava il discorso alla nazione, andato in onda ieri alle 2 ita­liane. Un’azione che lo stesso governo di Dama­sco aveva richie­sto, dicen­dosi pronto a coo­pe­rare con Washing­ton nel rispetto della pro­pria sovra­nità. Ovvero, qual­siasi ope­ra­zione non coor­di­nata con la Siria sarà con­si­de­rato atto di guerra. Eppure è pro­prio que­sta la pro­spet­tiva che si pro­fila: dopo tre anni di cam­pa­gna poli­tica e mili­tare (indi­retta) a favore delle oppo­si­zioni, un inter­vento a fianco di Dama­sco can­cel­le­rebbe la già scarsa cre­di­bi­lità Usa nella regione.

Per ora il pre­si­dente pro­se­gue sulla via dell’armamento e il finan­zia­mento delle oppo­si­zioni mode­rate siriane: la Casa Bianca è in attesa del via libera del Con­gresso per inve­stire 500 milioni di dol­lari in un nuovo pro­gramma di adde­stra­mento e equi­pag­gia­mento dei gruppi anti-Assad. Un via libera che nel caso di raid in ter­ri­to­rio siriano non è neces­sa­rio: il pre­si­dente può allar­gare l’operazione senza l’ok uffi­ciale del Congresso.

In un incon­tro alla Casa Bianca con alcuni par­la­men­tari, Obama sarebbe stato chiaro: «Ho l’autorità di cui ho biso­gno per agire», ha detto sot­to­li­neando però l’importanza di una legit­ti­ma­zione par­la­men­tare «per dimo­strare al mondo che gli Usa sono uniti nel com­bat­tere la minac­cia». Per il voto del Con­gresso però Obama dovrebbe aspet­tare a lungo: sena­tori e depu­tati hanno fatto capire che una vota­zione in merito arri­ve­rebbe solo dopo le ele­zioni di medio ter­mine, a novem­bre. E Washing­ton non può atten­dere tanto.

Nelle stesse ore, tre auto­bomba sal­ta­vano in aria nel quar­tiere sciita Bagh­dad El Jadida (ucci­dendo 19 per­sone e feren­done 29) e il segre­ta­rio di Stato Usa volava in Medio Oriente: oggi sarà a Jed­dah, al mee­ting pro­mosso dall’Arabia Sau­dita per discu­tere delle misure anti-Isis nella regione, dopo la visita di ieri in Iraq dove ha incon­trato il neo pre­mier ira­cheno sciita al-Abadi, il pre­si­dente Masum (curdo) e il pre­si­dente del par­la­mento al-Juburi (sunnita).

Da Bagh­dad Kerry ha par­lato di un’ampia coa­li­zione inter­na­zio­nale nata al sum­mit della Nato e oggi alla cac­cia di nuovi adepti: sareb­bero 40 gli stati con cui Washing­ton sta coor­di­nando aiuti uma­ni­tari e mili­tari. L’esercito ira­cheno, ha aggiunto Kerry, «sarà rico­sti­tuito e adde­strato con l’aiuto non solo degli Usa ma anche di altri paesi». Quell’esercito su cui Washing­ton aveva fon­dato buona parte della pro­pria pro­pa­ganda durante gli anni dell’occupazione: quando nel dicem­bre 2011 le truppe Usa si riti­ra­rono, la Casa Bianca dichiarò di aver lasciato la sicu­rezza del paese nelle mani di forze mili­tari ade­gua­ta­mente armate e preparate.

La realtà dei fatti rac­conta un’altra sto­ria: l’esercito che fu di Sad­dam Hus­sein fu depu­rato delle com­po­nenti sun­nite, sosti­tuite da gene­rali e mili­tari sciiti spesso fedeli all’ex pre­mier Maliki, inca­paci di gestire le divi­sioni interne e con­si­de­rate dalla mino­ranza sun­nita come stru­mento repressivo.

Così oggi tra le pro­po­ste pre­sen­tate da Kerry al primo mini­stro fre­sco di nomina – rive­lano fonti uffi­ciali – c’è la crea­zione di unità locali per com­bat­tere l’avanzata dell’Isis e da con­si­de­rare parte della strut­tura mili­tare ira­chena. Una sorta di decen­tra­liz­za­zione della sicu­rezza che nelle pro­vince sun­nite sosti­tui­sca le forze mili­tari sciite e porti alla mag­giore inclu­sione pro­messa dal nuovo governo.

Ma pro­prio in Iraq l’attuale inter­vento Usa – 150 raid aerei dall’8 ago­sto ad oggi, loca­liz­zati al con­fine con il Kur­di­stan e, negli ultimi giorni, nella pro­vin­cia di Anbar – sta acu­tiz­zando le divi­sioni set­ta­rie che hanno tra­sci­nato il paese nel caos. Soste­nuti dalle bombe sta­tu­ni­tensi, mili­zie sciite e pesh­merga curdi stanno incre­men­tando la loro pre­senza sul ter­reno e con­trol­lando aree a pre­va­lenza sun­nita. Dall’altra parte, ai rifu­giati sun­niti – oltre un milione in tre mesi – viene impe­dito di tor­nare nelle pro­prie case, in zone ancora occu­pate dall’Isis o ter­reno di scontri.

Dopo i raid, rac­con­tano testi­moni sul posto, dai vil­laggi sun­niti si alzano colonne di fumo nero, spesso dovute agli incendi appic­cati alle case dalle mili­zie sciite, che insieme ai pesh­merga sono le uni­che a con­trol­lare certe comu­nità, esclu­dendo anche il più uffi­ciale eser­cito gover­na­tivo. Il sin­daco di Tuz Khur­mato, strap­pata alle mani dell’Isis la scorsa set­ti­mana, rac­conta di rapi­menti com­piuti dagli sciiti, men­tre nella stessa Amerli – la comu­nità turk­mena libe­rata dall’assedio dalla strana alleanza tra curdi, Usa e mili­zie gui­date dai pasda­ran – le Bri­gate Hez­bol­lah impe­di­scono oggi l’ingresso ai pesh­merga. Ancora una volta, la mino­ranza sun­nita si sente ai mar­gini: un sen­ti­mento dif­fuso e peri­co­loso per­ché potrebbe ulte­rior­mente but­tare chi si reputa oggetto di discri­mi­na­zione nelle brac­cia di al-Baghdadi.



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