Piketty: “Basta con la dittatura del debito ma non si salva l’Europa con gli slogan”

by redazione | 22 Settembre 2014 8:27

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PARIGI . «Errare è umano, perseverare è diabolico. Cambiamo strada, ora». Thomas Piketty è in testa alla classifica degli economisti che proprio non amano l’austerità. «Non per partito preso o per bieca ideologia» premette. «Semplicemente perché ho studiato la storia del debito pubblico dall’Ottocento ad oggi». A 43 anni appena compiuti è ormai entrato nella ristretta cerchia degli oracoli, o guru che dir si voglia. Tutta colpa, o merito, de “Il capitale del XXI secolo”, appena pubblicato in Italia da Bompiani, il libro con cui analizza l’esplosione delle disuguaglianze e un capitalismo basato sulla rendita finanziaria più che sul lavoro. Un bestseller mondiale a sorpresa, incensato da Paul Krugman, che addirittura mette Piketty sulla rampa di lancio per la candidatura al Nobel. «Non ero preparato a questo successo» racconta l’economista francese nel modesto ufficio alla Paris School of Economics. «Come vede — ironizza — l’università manca di fondi. Se pensiamo che solo lo 0,5% del Pil francese va all’istruzione e alla ricerca. Molto meno di quanto spendiamo per rimborsare il debito ». A sorpresa, però, Piketty non crede che il vulnus dell’eurozona sia economico, ma politico. La sua proposta: «I paesi dell’euro devono avere un parlamento che possa decidere in autonomia rispetto alle istituzioni dei 28 paesi dell’Ue. Abbiamo creato un mostro: non possiamo più avere una moneta unica senza una politica di bilancio comune».
Cominciamo dal debito pubblico. Smettiamo tutti di pagare?
«I debiti pubblici non sono più elevati che in America, nel Regno Unito o in Giappone. Solo qui, in Europa, abbiamo trasformato questa situazione in una crisi di sfiducia e stagnazione dell’economia. Sono molto preoccupato. Vedo soprattutto un immenso spreco. Nel mio libro dimostro che i fondamentali dell’Europa sono migliori di quel che pensiamo. I patrimoni e redditi non sono mai stati così alti. Anzi, sono aumentati in percentuale del Pil più che i debiti pubblici. Sono i nostri governi ad essere poveri».
Quale soluzione allora?
«Per ridurre il debito con avanzi primari sul bilancio statale, come cerca di fare l’Italia, ci vogliono decenni. Nell’Ottocento il Regno Unito aveva il 200% di debito pubblico sul Pil. Nel 1910, attraverso continui avanzi primari, è arrivato al 20% del Pil. Ma in un secolo il Regno Unito ha speso più per rimborsare debito che per investire nel sistema educativo. E’ un esempio triste, che ci dovrebbe far riflettere».
Più flessibilità sui deficit, come chiedono François Hollande e Matteo Renzi?
«Mi fa paura l’assenza di proposte che colgo in Hollande e Renzi. Non si può dire solo meno austerità, più investimenti. Per la Germania è facile rifiutare. È come se qualcuno chiedesse di avere una carta di credito in comune, facendo la spesa per conto suo. Italia e Francia dovrebbero avere più coraggio. Mettere subito sul tavolo un progetto di unione politica. A quel punto, anche i tedeschi sarebbero in difficoltà».
Cosa significa per lei unione politica?
«Un parlamento dell’eurozona, anche con meno paesi degli attuali 18, ma con un bilancio comune, un solo ministro delle Finanze, un livello di deficit votato di anno in anno in base alla congiuntura. Non potrà mai funzionare una moneta unica con 18 sistemi economici e sociali, 18 debiti pubblici e 18 tassi di interessi su cui i mercati possono speculare».
Quali paesi dovrebbero far parte di un eurogruppo ristretto?
«Francia, Italia, Germania, Belgio, Olanda, Spagna. Serve un gruppo pilota per dimostrare che l’integrazione delle politiche di bilancio è possibile. Oggi i tassi di interesse sui titoli di Stato nell’eurozona vanno dallo 0 al 4%. Non è normale per paesi che fanno parte della stessa unione monetaria. I mercati continuano a mettere in conto che qualche paese possa fare default o uscire dall’euro».
La governance europea non è già abbastanza farraginosa?
«L’attuale sistema istituzionale è bloccato dalla regola dell’unanimità. In un sistema parlamentare le decisioni sarebbero prese attraverso compromessi e coalizioni. Bisogna dare fiducia alla democrazia. I cittadini sono pronti se spieghiamo che con un parlamento dell’eurozona si potranno adattare i deficit alla congiuntura, lottare meglio contro l’evasione fiscale, oppure votare un imposta sui redditi delle società. Oggi in Europa le multinazionali pagano meno tasse delle piccole e medie imprese. E’ un’assurdità».
Il piano di investimenti della nuova Commissione può aiutare la ripresa?
«Per arrivare a 300 o 400 miliardi di euro sono stati addizionati investimenti pubblici e privati che ci sarebbero stati comunque. Non ci sarà alcun impatto sui bilanci nazionali e sull’economia europea. E’ solo un trucco contabile ».
Mario Draghi ha salvato l’Europa?
«In questi anni ha fatto molto. Non a caso, la Bce è l’unica istituzione federale europea che non rispetta la regola dell’unanimità. Ma non si può chiedere tutto a Draghi. Ha limiti oggettivi. Se ogni mattina la Fed dovesse scegliere tra il debito di New York, Texas o California, cercando accordi sui singoli bilanci, sarebbe il caos. Solo con un fondo comune di redenzione dei debiti pubblici, che possa emettere eurobond a un solo tasso di interesse, la Bce potrà davvero stabilizzare il sistema».
L’uscita dall’euro è un pericolo?
«Ritornare alla moneta nazionale sarebbe catastrofe. Ma l’unione monetaria senza unione fiscale e politica è la situazione peggiore. La speculazione sulle monete è stata sostituita da quella sui tassi d’interesse. E oggi i governi non hanno più l’arma della svalutazione. Siamo in trappola. Dobbiamo aprire gli occhi e trarre insegnamento dai nostri errori».

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