by redazione | 19 Settembre 2014 9:47
Ormai si sente ripetere ad ogni telegiornale: «le riforme strutturali, e soprattutto la riforma del mercato del lavoro». Dall’insistenza sembrerebbe che di riforme in questo campo non ne siano mai state fatte, mentre tutti dovrebbero ricordare che nell’ultima quindicina d’anni o poco più ne abbiamo avute almeno quattro rilevanti, più un numero cospicuo di interventi specifici, più i vari accordi governo-sindacati o Confindustria-sindacati.
Il mercato del lavoro è il settore più «riformato» che ci sia, uguagliato forse solo dalla previdenza. Eppure siamo qui a parlarne tutti i giorni, come se si trattasse di qualcosa rimasta immutata da un secolo.
In effetti continuare a parlarne sarebbe giustificato, perché i risultati di tutto questo lavorìo non sono deludenti, sono pessimi. Abbiamo un tasso di disoccupazione tra i più alti d’Europa, il tasso di attività è rimasto inchiodato una decina di punti sotto la media europea, la partecipazione femminile è a livelli catastrofici, dei giovani meglio non parlarne (nonostante il ritornello che ha accompagnato ogni «riforma»: «Dobbiamo farlo per i nostri figli»).
Di più: un altro dei ritornelli che hanno accompagnato le «riforme» è stato che si doveva superare un assetto «dualistico», nel senso di garantiti-non garantiti. Oggi non abbiamo più un mercato del lavoro dualistico, perché, mentre la platea dei «garantiti» si va sempre più restringendo (segno tra l’altro che tanto garantiti poi non sono), fuori di essa ci sono innumerevoli figure di lavoratori che hanno in comune due sole cose: l’instabilità dell’impiego e le basse – spesso miserabili – retribuzioni.
Viene così in evidenza il significato dell’espressione «superamento del dualismo», che va intesa come «superamento delle garanzie per il lavoro». Unificare, sì, ma tutti al peggio. Non si sente più nemmeno parlare di «flexicurity», cioè della garanzia di sostegno al reddito in cambio della facilità di licenziare. Costa troppo, intanto facciamo la flexy, per la security si vedrà. Prima o poi. Certamente poi. Forse.
Persino un provvedimento auspicabile come il salario minimo garantito rischia di essere interpretato in modo da approfondire la destrutturazione del mercato del lavoro.
La chiave di volta di questa strategia è quella enunciata dal vice ministro dell’Economia Enrico Morando, noto da tempo per incarnare l’anima più liberista del Pd, in un’intervista a Repubblica: «Il sistema che intendiamo rinnovare si basa sull’idea che per uscire dal contratto nazionale le aziende debbano sottoscrivere con i sindacati un loro contratto aziendale, come sta accadendo, ad esempio, alla Fiat».
E dunque: si vara il salario minimo per legge, di un importo sicuramente inferiore ai minimi dei contratti nazionali; le aziende seguono l’esempio della Fiat ed escono dalla Confindustria, non essendo così vincolate ai contratti nazionali, e si appiattiscono sul salario minimo legale. Poi magari elargiscono anche qualche aumento, a chi vogliono e come vogliono. Due piccioni con una fava: si distrugge il contratto nazionale e diventa facile ridurre i salari. Eh, ma i sindacati devono sottoscrivere un accordo, dirà qualche «riformista»: possono rifiutarsi. Certo, potrebbero: anche a Pomigliano avrebbero potuto, e si è visto com’è andata.
Insomma, quello che è in atto è l’ultimo assalto, quello che dovrebbe essere definitivo: via, in uno modo o nell’altro, gli ultimi rimasugli dell’art. 18, il contratto nazionale ridotto a un simulacro, da cui la rapida caduta verso l’irrilevanza dei sindacati.
E dunque via libera per la strategia della svalutazione interna, cioè la riduzione delle retribuzioni. Se il governo batterà questa strada, come sembra intenzionato a fare, si collocherà nell’area del neoliberismo estremo mentre anche là cominciano a serpeggiare dubbi su questa ricetta, come si è visto con la presa di posizione dell’economista Luigi Zingales, che ha affermato che è sbagliato tagliare i salari.
Chissà poi se le aziende seguirebbero effettivamente questa strada. Le aziende vogliono mano libera e niente vincoli, questo sì, ma a ridurre i salari ci pensano bene, e poche effettivamente lo fanno. Questo fatto risulta da una ricerca della Banca Mondiale, pubblicata nel luglio scorso (ma svolta nel 2007–2008). Una ricerca molto vasta, su 15.000 imprese di 14 paesi europei, tra cui alcuni extra-Ue, dal titolo Why firms avoid cutting wages: survey evidence from European firms.
È stato chiesto ai manager se avessero ridotto i salari di base negli ultimi cinque anni. Ebbene, solo poco più del 2% lo ha fatto. Tra le ragioni addotte, «le due principali sono la convinzione che ciò provocherebbe un peggioramento del morale e dell’impegno dei lavoratori e il pericolo che i più produttivi se ne andrebbero», generando inoltre costi per formare gli assunti al loro posto.
Parecchi citano come importante anche il ruolo dei sindacati, che nei paesi dell’Unione a 15 pesa il doppio che negli altri: ma di fatto, come dicono i numeri, anche dove il sindacato è più o meno inesistente o comunque ha pochissima importanza ben poche imprese hanno ridotto le retribuzioni.
Questo accade, afferma la ricerca, «anche in presenza di shock economici considerevolmente negativi». Certo, questa crisi non è «considerevolmente negativa»: è devastante, grazie alle politiche che sono state imposte. E dunque non c’è da rassicurarsi troppo.
Ma resta il fatto che quasi tutte le imprese percepiscono – correttamente – i tagli ai salari come un qualcosa che non solo può alla fine non far risparmiare, ma rischia di deteriorare l’efficienza dell’azienda.
I tecnocrati, una parte dei politici e gli economisti neoliberisti finiscono dunque per sorpassare a destra gli imprenditori, che sono obbligati a mantenere un ancoraggio con la realtà anche se contrasta con l’ideologia: un limite che quegli altri evidentemente non sentono.
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