by redazione | 30 Settembre 2014 9:38
Il momento, come si dice, è delicato. La partita politica e culturale che si gioca sul terreno del lavoro non è uno dei tanti scontri di casa Pd. E così nelle minoranze del partito, che arrivano al Nazareno in ordine sparso dopo una riunione nella quale non è stato possibile trovare una posizione unitaria e dopo l’ennesimo e vano tentativo di mediazione con il leader della «sinistra» che vuole dare all’imprenditore la libertà di licenziare, sono parecchi quelli che, sperando fino all’ultimo momento, se non in un pareggio, in una sconfitta contenuta o contenibile, vorrebbero evitare la contrapposizione frontale. Parecchi, ma non tutti. Sicuramente non Massimo D’Alema.
La direzione è cominciata con un’ora di ritardo per lasciare spazio alle trattative, che andranno avanti fino a tarda sera per non approdare a nulla. L’ex candidato alla segreteria Gianni Cuperlo, nel suo intervento, ha da poco lanciato un ultimo appello a Matteo Renzi. L’ex segretario della Cisl e presidente della repubblica mancato Franco Marini ha appena detto di aver intravisto nella possibilità di tipizzare meglio la discriminazione e i motivi disciplinari nei licenziamenti (ne ha fatto cenno il premier-segretario) il punto della mediazione possibile. Ma D’Alema non fa appelli. Di certo non a Matteo Renzi: «Sono ammirato dall’oratoria del segretario, ma persino il fascino dell’oratoria talvolta non riesce a far sì che ci sia una qualche attinenza tra una parte delle osservazioni che vengono fatte e la realtà». E «io potrei fare una lunghissima elencazione di affermazioni prive di fondamento».
E D’Alema almeno una breve elencazione la fa: l’articolo 18 non è, come ha detto Renzi nella sua relazione, un «tabù» intoccato da 44 anni, perché dopo la riforma Fornero di appena due anni fa «non esiste più» se non come «tutela residuale» e prima di intervenire nuovamente bisognerebbe come minimo effettuare quel monitoraggio che la Fornero aveva promesso. Il segretario ha detto di non avere come modello la Spagna? Peccato, prosegue D’Alema, che solo in Spagna non c’è il magistrato che interviene per l’eventuale reintegro, e in nome della modernità ci si vuole «porre al di fuori del consorzio civile». E ancora: l’intervento sul cuneo fiscale non è, come ha detto ancora il premier, un inedito, perché «il governo Prodi investì 7 miliardi nella riduzione del cuneo». Il miliardo e mezzo in finanziaria assicurato da Renzi per estendere le tutele? «Ne servirebbero 10 volte di più» e «ho molti dubbi su una finanziaria fatta di spot, un miliardo qua, un miliardo là…». E poi Stiglitz, «evidentemente rottame della sinistra», contrapposto ai «giovani consiglieri» che certo non sono stati« insigniti di una cosetta come il Nobel». Conclusione: «Meno slogan, meno spot, azione di governo più riflettuta», perché si può anche «raccontare che l’articolo 18 sta lì da 44 anni, ma ci sono quelli che purtroppo le cose le sanno».
Insomma, D’Alema non è per la trattativa a oltranza per provare a limitare i danni, per quanto possibile. E nemmeno Bersani, anche lui all’attacco frontale, nel giorno del suo compleanno, contro «i neo convertiti della ditta» e persino «il metodo Boffo» utilizzato contro chi esprime dissenso. E se non c’è lavoro non è per l’articolo 18, questa è una bufala, insiste.
Nella minoranza però si stringono i denti. L’intervento di Renzi non è sembrato di chiusura totale, il premier ha quantomeno evitato di salire sul caterpillar, si riflette. Ha prospettato la possibilità di reintegro anche per i licenziamenti per motivi disciplinari (fino a ieri sembrava assestarsi solo su quelli discriminatori, che però non era certo una concessione perché non è l’articolo 18 a escluderlo, ma la Costituzione e la Carta dei diritti dell’uomo). E ha aperto, a modo suo, al confronto con i sindacati, invitati nella sala verde di palazzo Chigi a partire «da domani», per «raccogliere la sfida» su tre punti: nuova legge sulla rappresentanza (offerta che somiglia a una polpetta avvelenata, visto che su questa si era aperto lo scontro tra Maurizio Landini e Susanna Camusso), il salario minimo e il collegamento tra contrattazione nazionale e di secondo livello. Poi Renzi ribadisce l’ipotesi di inserire una parte del Tfr in busta paga dal primo gennaio, se sarà garantita dalle banche liquidità alle imprese. Per il resto, molti slogan e in realtà non chissà quali aperture: «Il compromesso va bene, ma non a ogni costo, non siamo un club di filosofi, ma un partito che decide e questa per me è la ditta»; il «25 maggio abbiamo fermato l’avanzata dell’antipolitica», gli elettori «ci hanno chiesto di cambiare l’Italia e l’Europa» e in caso contrario «potrebbero fare zapping» ed è «normale che i poteri, non chiamiamoli forti, ma aristocratici, cerchino di riprendersi il posto».
Parole che «usava la destra 10 anni fa», interviene Pippo Civati. «Una cultura politica da anni 80, il cambiamento va fatto in modo progressivo» ed «è Renzi ad aver abbandonato le posizioni del Pd», ricorda Stefano Fassina. «Il momento è delicato», dice appunto Fassina, e così a sera alcuni esponenti della minoranza come Epifani, Cesare Damiano, Roberto Speranza, insieme al vicesegretario Lorenzo Guerini lavorano ancora a un documento di mediazione. Il giovane turco diventato presidente del partito, Matteo Orfini, ha già visto passi avanti nella relazione del segretario. Gli altri cercano appigli in più almeno per astenersi. Ma all’orizzonte non si vedono. Si va verso la rottura e Renzi comincia così la sua replica: «Le discussioni sono belle anche quando non siamo d’accordo. Ma alla fine si vota allo stesso modo in parlamento. Questa per me è la stella polare».
Viene presentato l’ordine del giorno che prevede il reintegro ovviamente per il licenziamenti discriminatori e per quelli disciplinari, ma non per quello economico. La relazione del segretario viene approvata con 130 sì, 20 no e 11 astensioni.
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