Parlamentari, tecnocrati, sindacati L’avviso del premier agli «avversari»

by redazione | 17 Settembre 2014 8:55

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ROMA — Gli avversari sono elencati tutti: i parlamentari, che andranno a casa se non votano le sue riforme; e poi «i professionisti della tartina», «i presunti esperti dei convegni», «le stanze di Bruxelles», «la classe dirigente rassegnata alla rassegnazione», la Rai — «vi dico con orgoglio che non ho mai voluto incontrare il direttore generale» —, «le banche d’affari che ci consideravano falliti e invece sono fallite loro», «le corporazioni sindacali». La notizia è che alla lista va aggiunta la magistratura, o almeno il ruolo che ha esercitato negli ultimi vent’anni. È questo, secondo il premier, il secondo tabù della sinistra da sfatare; l’altro è ovviamente l’articolo 18, sul quale è pronto un decreto.
Il rapporto di Matteo Renzi con le Camere non potrebbe essere più freddo. Lui del resto non perde occasione per maltrattare deputati e senatori, anche quando offre un patto che in sintesi suona così: potete restare al vostro posto per mille giorni, purché votiate disciplinatamente tutto, a cominciare dalla legge elettorale «che è una priorità»; se no si va al voto anticipato, «e da questa parte del tavolo non abbiamo paura». Montecitorio gli tributa due soli applausi convinti. Il primo quando Renzi dice che «i magistrati devono fare le ferie come i cittadini normali». Il secondo quando grida: «Rivendico a questo governo di essere il primo governo che è venuto in Parlamento a dire, a viso aperto, che noi non accettiamo che uno strumento a difesa di un indagato, l’avviso di garanzia, costituisca un vulnus all’esperienza politica o imprenditoriale di una persona…». Lo interrompe Brunetta gridando a sua volta: «Vergogna!», come a dire: troppo tardi. Renzi gli risponde ricordando che il Pd ha votato a favore dell’arresto di un suo deputato (Francantonio Genovese), che l’indipendenza della magistratura è sacra, ma che «la riforma della giustizia deve cancellare il violento scontro ideologico del passato». Dice in sostanza il premier che la politica riprende il suo posto, che la sinistra non si farà più condizionare dalla magistratura, neppure nelle nomine, come nel caso dell’Eni: «Un’azienda, che è la prima azienda italiana, che ha decine di migliaia di lavoratrici e lavoratori, è stata raggiunta da uno scoop, da un avviso di garanzia, da un’indagine. Io dico qui, in Parlamento, che noi aspettiamo le indagini e rispettiamo le sentenze, ma non consentiamo a nessuno scoop di mettere in difficoltà o in crisi decine di migliaia di posti di lavoro e non consentiamo che avvisi di garanzia, più o meno citofonati sui giornali, consentano di cambiare la politica aziendale in questo Paese…». Altri applausi di un ceto politico in via di riduzione ma all’evidenza rinfrancato. «Se per voi questa è una svolta, prendetevi la svolta, ma questo è un dato di fatto per rendere l’Italia un Paese civile!».
Sullo stesso tasto Renzi continuerà a battere per tutto il giorno. Al Senato il citofono diventa videocitofono, ma il concetto è uguale: «Arrivare alla sentenza preventiva per via mediatica, sulla base dell’iscrizione nel registro degli indagati, è un atto di barbarie», soprattutto se ci sono di mezzo l’Eni e il suo amministratore delegato Descalzi («un amico tuo!» gli grida il leghista Candiani). E’ una stagione nei rapporti tra giustizia e politica che si chiude, almeno nelle intenzioni di Renzi, che ricorda le nuove norme sulla responsabilità civile dei magistrati: la riforma «è il modo con cui vogliamo far fare la pace agli italiani con il sistema della giustizia, dopo vent’anni in cui, anche per responsabilità della politica, si è prodotto uno scontro furibondo». Parole quasi dalemiane, da cui Renzi sente l’esigenza di prendere le distanze almeno su un punto: «L’Italia non sarà mai un Paese normale, perché è un Paese eccezionale». Poi, parlando alla direzione del Pd al termine di una maratona linguistica tipo radicale ostruzionista anni 70, ha ricordato il caso Bonaccini: rinviato a giudizio quand’era responsabile della campagna renziana per le primarie 2013, poi assolto, ora indagato ma comunque in corsa per la Regione Emilia-Romagna. Ce n’è anche per polizia e carabinieri: «Non è consentito a nessuno di esercitare in modo indebito una pressione minacciando forme di protesta illegittime», come lo sciopero.
Per il resto, deputati e senatori hanno accolto con sollievo la promessa che, se si comporteranno bene, manterranno la poltrona sino a fine legislatura. Resta da capire con quali voti Renzi conta di far approvare il provvedimento più ostico: la riforma dello statuto dei lavoratori. Gli oppositori interni sono già assunti al rango di star: Cesare Damiano, presidente della commissione Lavoro della Camera ed esponente della vecchia guardia, viene accolto in direzione da una ressa di telecamere tipo Obama nei momenti più belli; comincia a dichiarare in mezzo alla strada, si forma un ingorgo, gli automobilisti esasperati suonano il clacson, Damiano è costretto a sintetizzare (Renzi passa prudenzialmente dal retro). La battaglia più dura però non sarà alla Camera ma a Palazzo Madama; e se il premier ha portato a casa la riforma del Senato per una manciata di voti, con il sostegno di Forza Italia, non si vede come potrà far approvare una revisione radicale del sistema, compreso l’articolo 18, senza i voti di Berlusconi, che a quel punto farebbe ufficialmente parte della maggioranza.
Ieri Renzi ha accostato l’attuale mercato del lavoro al Sud Africa dell’apartheid: da una parte i garantiti, che hanno accesso ai diritti e alla cassa d’integrazione; dall’altra le partite Iva, i precari, gli esclusi. E l’apartheid non è di sinistra, «è di sinistra lottare contro l’ingiustizia». Se le Camere approveranno la legge delega in tempi ragionevoli, bene. Altrimenti il governo agirà per decreto. Perché «noi possiamo pure perdere le prossime elezioni, ma non possiamo perdere tempo»

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