«Ma Obama non ha una road map per quando il Califfato sarà sconfitto»
NEW YORK — «Le esecuzioni efferate dell’Isis hanno prodotto una forte reazione dell’opinione pubblica Usa, Obama decide di attaccare lo Stato terrorista, ma è meglio non farsi troppe illusioni sulla coalizione panaraba che il Segretario di Stato John Kerry ha cercato di costruire in questi giorni. I Paesi mediorientali a maggioranza sunnita vogliono sicuramente aiutare l’America nella campagna contro l’Isis, ma nessuno si impegnerà davvero se non c’è un piano non solo convincente, ma chiaro negli obiettivi finali. E Barack Obama non ha fornito una road map su quello che accadrà se e quando l’Isis verrà sconfitto o comunque costretto a ritirarsi».
Il direttore della Scuola di studi internazionali della Johns Hopkins University, Vali Nasr, conosce molto bene leader politici e società mediorientali. Nato a Teheran, figlio di un accademico iraniano emigrato negli Usa dopo la rivoluzione khomeinista del 1979, negli Usa Vali è diventato uno studioso e, poi, un’autorità riconosciuta. In passato ha lavorato anche per l’amministrazione Obama: non alla Casa Bianca ma al Dipartimento di Stato di Hillary Clinton. Cosa che non gli impedisce di essere molto critico col presidente americano. E non da ora. Già in un libro pubblicato all’inizio del 2013 e che fece molto discutere (The Dispensable Nation: American Foreign Policy in Retreat , La nazione non indispensabile, la ritirata della politica estera americana) aveva illustrato in dettaglio gli enormi rischi derivanti da un ridimensionamento del ruolo Usa in Medio Oriente.
In un articolo per il «New York Times» lei si era augurato che Obama, compreso l’errore, avesse il coraggio di spingere il «reset button» in Medio Oriente. Non lo ha fatto?
«Serviva una grande strategia, una visione di lungo periodo. Non c’è. Il presidente si è semplicemente impegnato ad affrontare i problemi più immediati nel modo più limitato possibile. Non solo non vuole mettere soldati Usa sul terreno, ma non vedo nessuna volontà di aggredire le cause del problema: solo qualche idea su come affrontare i sintomi del male».
Obama ha davanti a sé uno scenario più complesso rispetto al passato. La Siria è esplosa, I’Iraq rischia di fare la stessa fine, e anche tra i sunniti le divisioni sono profonde. Che tipo di impegno possiamo aspettarci dalla coalizione panaraba?
«Certo, nel mondo arabo ogni Paese ha la sua agenda. Tutti hanno interesse a sconfiggere l’Isis, ma mentre per gli Usa questo è l’unico obiettivo, per le nazioni arabe è uno degli obiettivi, in alcuni casi nemmeno il principale. La volontà di questi Paesi di aiutare Obama è sincera. Non combatteranno in campo aperto, ma forniranno basi per gli attacchi aerei, contribuiranno all’addestramento dei combattenti in Siria e Iraq. Ma l’entità del loro sforzo dipenderà anche da come Washington risponderà alla domanda cruciale: cosa avverrà nelle zone liberate dall’Isis? Chi ne prenderà il controllo? Il rischio che, col cronicizzarsi del vuoto politico nell’area, i territori vengano conquistati da un’altra organizzazione terrorista come il Fronte di Al Nusra, emanazione di Al Qaeda, o che nasca un’altra formazione militare ancora più spietata è molto forte. E su questo da parte americana non viene detto nulla».
Difficile immaginare una road map compatibile con le agende di decine di Paesi. Come reagirebbe il mondo arabo a soluzioni calate dall’alto?
«Ci sono sensibilità di cui tener conto ma c’è anche un vuoto politico e strategico da riempire. Consideri poi che anche i Paesi arabi, pur non essendo delle democrazie, non possono ignorare le loro opinioni pubbliche. E qui la storica diffidenza nei confronti degli Usa non è certo diminuita col discorso di Obama: non ha parlato al mondo, ma alla sua opinione pubblica promettendo di fare solo quanto necessario per proteggere l’America da possibili attacchi terroristi».
Ci riuscirà usando solo la forza aerea?
«È possibile che l’Isis reagisca con azioni di rappresaglia e che questo spinga gli Stati Uniti a una sorta di escalation. Oggi la linea è niente truppe in campo, ma chi può dire cosa succederà davanti a un eventuale bagno di sangue americano?».
L’Iran può giocare un ruolo?
«Lo sta già giocando perché è l’unico Paese che ha soldati, combattenti o consiglieri militari, tanto in Iraq quanto in Siria, ma è tutto molto complicato e non solo perché Paesi come l’Arabia Saudita considerano Teheran più pericolosa del califfato. In Iraq, comunque, l’Iran gioca sicuramente un ruolo importante nell’ambito del piano americano, ad esempio contribuendo ad armare i gruppi sciiti e curdi che combattono contro l’Isis. In Siria è molto diverso perché Usa e Iran qui sono su fronti opposti».
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