by redazione | 23 Settembre 2014 10:23
L’Europa non era morta. Non era morta grazie ai suoi intellettuali migliori, che ne avevano serbato la memoria, ne avevano ricostruito la storia, ne avevano mantenuto vivo lo spirito. Era dunque venuto finalmente il momento di dar vita a un’Europa politicamente unita? Il progetto non era nuovo. Vi avevano posto mano fra gli altri Carlo Cattaneo e Giuseppe Mazzini. A Lugano apparve nel 1944 l’opuscolo di Ernesto Rossi, Gli Stati Uniti d’Europa ; nel gennaio del 1945 apparve il Manifesto di Ventotene , scritto qualche anno prima al confino da Ernesto Rossi e da Altiero Spinelli, che conteneva il programma di quello che sarebbe diventato il Movimento per l’unità europea. Indipendentemente dagli autori del Manifesto, un altro rappresentante della diaspora antifascista, Umberto Campagnolo, si era posto lo stesso problema. Nel febbraio 1945 pubblicò un opuscolo, intitolato Repubblica federale europea , la cui idea centrale era che il momento era venuto di far passare il federalismo europeo dall’utopia alla scienza e che questo passaggio non poteva avvenire per opera degli stati che avrebbero cercato di conservare gelosamente la propria sovranità, ma soltanto attraverso un processo dal basso per l’iniziativa e l’opera dei popoli. Sulla possibilità di un’unificazione europea a breve scadenza caddero ben presto le illusioni. Con la conferenza di Yalta del febbraio 1945 la ragion di Stato, o per meglio dire degli stati vincitori, prevalse. Campagnolo se ne rese subito conto. Capì che la soluzione politica dell’Europa era prematura e che il problema europeo era ancora una volta, com’era stato durante gli anni di ferro e fuoco, un problema prima culturale che politico. In attesa dell’Europa politica perché non fare appello all’Europa della cultura? La politica divide, la cultura unisce. Sin dalle prime righe dell’articolo sulle Origines de la Société européenne de culture che Umberto Campagnolo pubblica nel primo numero di Comprendre , in occasione della assemblea costitutiva della fine di maggio 1950, si legge: «Il suo scopo principale doveva essere di salvaguardare la possibilità, così essenziale tra uomini di cultura, di un colloquio minacciato dall’esasperarsi della lotta politica tendente a dividere l’Europa in due campi sempre più irriducibilmente chiusi l’uno all’altro». Si parva licet, nello stesso fascicolo appare il mio articolo con cui ha inizio la mia collaborazione allarivista. È intitolato Invite au colloque , e insiste sullo stesso tema del dialogo. Comincia con queste parole con cui ho cercato di designare il mio ideale d’intellettuale: «Il compito degli uomini di cultura è più che mai oggi quello di seminare dei dubbi, non già di raccogliere certezze. Cultura significa misura, ponderatezza, circospezione: valutare tutti gli argomenti prima di pronunciarsi, controllare tutte le testimonianze prima di decidere, e non pronunciarsi e non decidere mai a guisa di oracolo dal quale dipenda in modo irrevocabile una scelta perentoria e definitiva ».
La Società europea di cultura era dunque nata dalla convinzione che bisognasse salvaguardare l’unità spirituale dell’Europa e che questo fosse il compito specifico degli uomini di cultura, intendo, il compito politico degli uomini di cultura, di quella politica che è loro propria e che abbiamo sin d’allora chiamata e continuiamo a chiamare “politica della cultura”. Unità dell’Europa e politica della cultura erano problemi strettamente connessi. La nostra Società ha posto alla base della sua azione il principio del dialogo, inteso come apertura incondizionata verso l’altro, rispetto delle idee altrui, sforzo di comprensione del diverso. Ho bisogno di aggiungere che dialogo non vuol dire accordo a tutti i costi? Il primo numero della nostra rivista pubblicò un articolo di Père Maydieu, che non ho mai dimenticato. È intitolato La culture naîtra de nos désaccords . Un articolo paradossale ma profondo e veritiero. Il disaccordo nasce dalla coscienza dei nostri limiti: solo gli sciocchi non se n’accorgono. Ma è il disaccordo che pone rimedio alle nostre insufficienze, perché ci permette di riconoscerle. «Una società — conclude — in cui il disaccordo non avesse più spazio sarebbe la più terribile delle prigioni». Forse si potrebbe aggiungere che c’è disaccordo e disaccordo: il disaccordo tra coloro che credono fermamente nelle loro idee ma non rinunciano a metterle a confronto con quelle degli altri, e il disaccordo dei potenti che incombono su di noi, i quali credono solo nella loro potenza e vedono l’unica fine possibile del disaccordo nell’eliminazione dell’avversario. Non ho bisogno di precisare quale sia il disaccordo che noi amiamo. È il disaccordo da cui nasce non la contesa senza fine ma la possibilità di comprensione.
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